In questo groviglio di cose per la mani (non so quanto sia un bene avere molte cose per le mani, per di più aggrovigliate) ripenso a quando ho compiuto 18 anni.
Significavano più di qualunque diritto guadagnato con la maturità nel nostro Bel Paese. Non m’importava di andare a votare, né di pilotare una diavoleria con le ruote e un cerchio per cambiare direzione. A quello, come a molto altro della nuova età, ci avrei pensato con calma. Esisteva una sola priorità in cima alla mia lista, che chiedevo da anni, mai concessa. La risposta di Madre era sempre la stessa.
“Quando avrai 18 anni farai come ti pare. Adesso non se ne parla.”
Come se a 18 anni cambiasse chissà che. Come se il giorno prima non potessi cavarmela senza le sue direttive e il giorno dopo sarebbe scattato l’interruttore e caduta dal cielo la chiave per aprire tutte le porte, direttamente nel palmo delle mie mani. A me interessava una cosa soltanto: farmi un tatuaggio che mi ricordasse non di fidanzatine finite chissà dove, segni zodiacali, iniziali di nomi, dragoni e farfalle. Di me, della mia forza, della mia volontà, dei miei meriti. Che erano abbastanza, questo doveva ricordarmi, perché troppo spesso lo dimenticavo e mollavo la presa. Ero sicuro che se non avessi fatto incidere con inchiostro indelebile un segno di questo sulla pelle, non avrei raggiunto neanche uno dei miei obiettivi.
Io da solo non sono mai bastato. Le mie forze non si sono mai rivelate sufficienti. Il muro restava là, intatto e la testa mi faceva male per il dolore di tutti i tentativi fatti per abbatterlo. Troppo pochi e troppo poco convincenti. Questa era la verità che non ammettevo. Come quando dici: Ho fatto tutto il possibile e non ci sono riuscito, ben sapendo che non hai fatto neanche la metà del possibile. Non vuol dire che le cose sarebbero andate diversamente, che avresti incontrato il successo, ottenuto quello che desideravi, raggiunto la meta del tuo piccolo cammino, però di fatto hai toppato per colpa tua. Io non volevo che fosse più mia la colpa, perciò avevo bisogno di una spinta che mi ricordasse tutti i giorni che io posso arrivare dove voglio.
Era ottobre inoltrato e alla Villa Comunale il vento portava in giro le foglie che saltellavano sulle panchine, eppure il tatuatore non sembrava per nulla infreddolito. Mi aspettava con una maglietta aderente nera senza maniche che lasciava le braccia far bella mostra dei disegni che le ricoprivano. Era un ragazzone pompato, gentile, che sapeva fare solo una cosa, ma la sapeva fare bene.
“Mi piacerebbe un piccolo disegno sul dorso della mano, fra il pollice e l’indice.”
“Lascia perdere le mani, che si consuma subito e poi te ne penti.”
“Ma è con le mani che io voglio fare le cose che questo tatuaggio deve significare.”
“Fallo, ma non tatuarti niente sulle mani. Non durerebbe neanche 2 mesi.”
Così ho scelto il polso. Dovevo vederlo sempre e ogni volta pensare: Tu puoi arrivare dove vuoi, altrimenti non avrei volato mai.
“Mi sa che ho il disegno giusto per te” mi ha detto mentre nel suo studio giravo e rigiravo le pagine plastificate del catalogo consumato dai tanti che lo avevano maneggiato negli anni. È sparito in una stanzetta tornando subito dopo con un quadrato di carta e una rondinella appena abbozzata. Mi si è illuminato lo sguardo, lo so. Mi succede sempre quando vengo raggiunto dal brivido del tutto giusto.
Vi capita mai di pensare: Sì, proprio così dev’essere! Se in quel momento davanti a voi aveste uno specchio vi accorgereste di quel brillio.
“Non lo devi fare a nessun altro, però.”
“Va bene. Lo tengo nell’album dei miei lavori, ma non lo metterò in catalogo.”
Il 20 ottobre del 1999 è stato uno dei giorni più giusti della mia vita. Felice di un dolore fisico necessario allora e di cui non ho smesso mai di aver bisogno.
Chissà se poi quel ragazzone pompato il disegno non l’ha davvero dato più a nessuno. Col senno di poi mi auguro che abbia tradito la promessa. Perché la rondine che vola sul mio polso possa portare a qualcun altro le motivazioni che dà tutti i giorni, da 11 anni, a me.
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