La noto per la sua magrezza, i capelli neri come la cinta di pelle lucida che non metto quasi mai, gli occhi scuri e la pelle bianco/grigia. Seduta accanto a me, mi attrae come un insetto. Non un cenno di riso, nonostante talvolta una risata ci stia bene a sdrammatizzare la stranezza del corso e di chi lo tiene. Invece lei appunta su un quadernino a quadretti informazioni inutili a cui siamo costretti, tutti lì di malavoglia. Temperature critiche, regole per lo stoccaggio dei cartoni, responsabilità del datore di lavoro, acronimi, articoli di legge sul controllo della qualità e della sicurezza. Guarda dritta, direi nel vuoto, mentre tutti fanno un gran baccano in risolini derisori nei confronti del docente strambo: un dottore veterinario, che non perde occasione di raccontare le sue vicissitudini personali. Fra la descrizione di un batterio pericoloso, il verme solitario e la fotografia del fegato asportato a una mucca morta per cause da accertare, ci infila la pigrizia della moglie che non ha voglia neanche più di scaldargli un brodino. Lei scrive, forse pure l’esempio del brodo. Io non vedo l’ora di uscire da quella stanza di un container (ovviamente) vicino l’ospedale e non capisco davvero dove trovi la forza di interessarsi a quella frattaglia di informazioni.
Quando ci dicono di andare, si volta dalla mia parte e dice solo: “Finalmente!” come se tutto il tempo avesse ascoltato i miei pensieri, spero non proprio tutti, che si domandavano di lei. Usciamo e ci mettiamo a parlare del più e del meno. I miei occhi smettono di far caso al suo aspetto mortisiano. La ascolto. Non so perché resto lì mentre lo spiazzo si svuota, e forse non lo sa neppure lei. Mi racconta le sue ultime esperienze di lavoro, in modo naturale. Ha bisogno di sfogarsi e allora pure uno sconosciuto va benissimo per parlare di questo e di quello che danno noia, la pelle bianco/grigia e gli occhi spenti per colpa delle ingiustizie subite, la stanchezza di mesi e mesi non ripagata né economicamente né in termini di motivazioni, gentilezze, stimoli. Tutt’altro. Doveva esplodere con qualcuno, perché i vicini si saranno scocciati di ascoltarla e pure il ragazzo. L’aveva capito benissimo dai sospiri e dalla sua tendenza a tagliar corto.
Ha vissuto un brutto periodo, sfruttata come una schiava in un supermercato dal nome noto. Mi ha raccontato delle 38 ore settimanali da contratto che diventavano 47, non pagate.
“Non firmavamo né l’entrata né l’uscita, e non avevamo un cartellino.”
Non mi sorprende.
“All’inizio stampavano il foglio generale degli orari di tutti, poi hanno smesso. Ognuno aveva una strisciolina di carta con solamente i propri orari, per paura che ci rivolgessimo a un sindacato con il foglio e vedessero quello schifo di ore in più.”
Non mi sorprende.
“Ho studiato tanto, mi sono laureata in lingue, per che cosa? Per sgobbare dalla mattina alle 7 fino alla sera alle 9 a caricarmi bancali di roba pesantissima e a essere insultata, per arrivare a fine mese neanche a 1000 euro?”
“Insultata?”
Glielo domando anche se so a cosa si riferisce.
“La direttrice è una pazza invasata, grida fra le corsie. Si avvicina e ti urla in faccia frasi offensive. Quando mi ha assunta mi ha promesso una crescita veloce, perché aveva notato le mie potenzialità o almeno questo è quello che mi ha detto. Così mi sono lasciata convincere e sono andata a fare un corso di un mese a Sulmona (120 km da qui) non pagato. Mi hanno rimborsato solo 300 euro per la benzina con un bonifico 7 mesi dopo.”
Non mi sorprende, proprio no.
“Ti sei licenziata?”
“Sì, ma non perché mi ero scocciata. Sono proprio una stupida. Me ne sono andata perché un responsabile si è fidanzato con una commessa e un mese dopo era diventata la nostra nuova responsabile.”
Non mi sorprende perché io in un supermercato c’ho lavorato 6 mesi e dal giorno in cui ho rassegnato le mie dimissioni mi sono ripromesso che mai più avrei fatto capitare nella mia vita un lavoro del genere, a costo di morire di fame. Certe volte il tempo indeterminato non corrisponde al sollievo per la sicurezza di un lavoro e di un futuro, ma alla condanna (a tempo indeterminato) a una vita infelice. È necessario trovare il coraggio e la forza di andar via, magari con la modalità consigliata dalla Lucianona nazionale: “Ci sono delle cose nella vita che si risolvono solo…”
Qualcuno di voi ha vissuto o sta ancora vivendo brutte esperienze di lavoro che vuol raccontare?
[Il titolo del post è un verso di Confusa e felice di Carmen Consoli, liberamente riscritto.]
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