Sono allungato sul letto con gli occhi che mi si chiudono – io li riapro, ma loro si richiudono, che vogliamo fare?! – e credo che fra un po’ avranno la meglio, la gambe doloranti, una quantità innumerevole di fastidiosissime scheggette di legno, perlopiù concentrate sotto il pollice della mano destra, e in corpo ancora l’eccitazione chimica dovuta all’aver bevuto un litro e mezzo esatto di tè alla pesca (non deteinato) in venti minuti. Queste le conseguenze di una giornata obiettivamente pesante. Stamattina è stato il primo giorno di lavoro dopo il 6 aprile. Il Mc Donald’s è quasi pronto alla riapertura che sarà lunedì, perché per venerdì proprio non ce la facciamo (scongiurata la malasorte del venerdì 17). Quattro ore a caricare carriole di mattoni rotti, tavole di legno, pedane, vetri delle finestre, tavolini, emme (avete presente quelle gigantesche emme gialle?), emme elettriche (sì, ci sono anche quelle con le lucine, che pesano più di un sacco della spazzatura con un cadavere dentro) e tutto quello che potete immaginare possa derivare dal dover rimettere a nuovo un locale semidistrutto dal terremoto, a partire dai suoi resti.
L’atmosfera mi è piaciuta. Nell’aria c’era voglia di ripartire. Saranno giorni pesanti, ma l’idea che insieme stiamo facendo del nostro meglio per ritrovare una sorta di quotidianità fa sparire la fatica, oddio sparire non proprio. Quando alle tre ho staccato mi sono travestito da Barrichello (solo che io guido una Matiz) e ho raggiunto Corropoli, a 100 km, per incontrare il professore a cui ho deciso di chiedere la tesi. Mi aveva scritto che sarebbe rimasto in sede fino alle cinque e mezza. Dopo un’irrinunciabile doccia, sono partito che erano già le quattro e un quarto. In autostrada ho volato, ne sono certo. Franchino, che mi ha accompagnato, è ancora visibilmente pallido e risponde a stento alle domande, per via dei 170 km orari, toccati e mantenuti costanti sulla corsia di sorpasso; però ce l’ho fatta. L’ho beccato che se ne stava andando baldanzoso e saltellante.
Dove vai, maledetto! Fortuna che te l’avevo scritto che mi sarei catapultato dal lavoro e di aspettarmi, nel caso, quei pochi minuti di ritardo, che comunque non ho fatto perché ho superato la velocità della luce. Per la serie: Come ritrovarsi a cavallo dell’Orsa Maggiore e non riuscire a spiegarselo. Gli ho raccontato che ho qualche problemino con la programmazione (sempre se il non essere in grado di ideare un programma capace di fare la somma di due interi a una cifra possa definirsi qualche problemino con la programmazione) e che avevo bisogno di una tesi che avrebbe potuto portare a termine pure il mio vicino di casa di otto anni. Lui mi ha risposto che aveva capito benissimo la mia situazione e poi ha aggiunto: “Si ricordi però che si sta laureando in Informatica… IN-FOR-MA-TI-CA!” L’ha scandito sorridendo. Ebbene ha deciso di seguirmi, ed io lo ringrazio molto. Mi fa un po’ pena quel pover’uomo dal buon cuore che non sa cosa lo aspetta.
Ci siamo dati appuntamento a settembre per dare un’occhiata al materiale che io, in questo mese abbondante, dovrei raccogliere in rete. Speriamo bene. Intanto gli ho scritto un’e-mail per ringraziarlo della gentilezza e della disponibilità, alla quale risponderà fra tre giorni (è il suo tempo medio di risposta agli stimoli) con la solita e-mail prodotta dal suo processore con impiantato l’algoritmo di risposta automatica, tipo quei personaggi virtuali che son capaci di rispondere alle affermazioni in modo più o meno sensato e se gli dici: “Fanculo!” replicano con: “Io non sono una parte del corpo”. Dopo la terza e-mail ho iniziato a chiedermi se stessi domandando la tesi a un umano o a un androide coi fili dentro.
Prima di rimetterci in viaggio per L’Aquila io e Franchino ci siamo fermati all’unico bar di Corropoli, paesino che si presterebbe divinamente alle riprese del seguito di Sahara, la terra del niente. La sete ci aveva tolto persino la parola. “Una Lemonsoda freddissima, grazie” ho detto alla ragazza dietro al bancone che m’ha risposto: “Va be’, ho capito, ci metto il ghiaccio!” al che mi sono sentito in colpa e sono stato tentato di chiederle scusa per lo sforzo disumano a cui l’avevo costretta. Finita la Lemonsoda e sgranocchiato il ghiaccio: “Fra, io ho ancora sete!” “Pure io, prendiamoci un Calippo!” “Oddio, il Calippo!” Mi ha preso un senso di straniamento lampo. Non mangiavo un Calippo da… beh insomma, da prima della mia prima volta! Sete sete sete. Neanche il Calippo aveva sortito il suo effetto. “Ok, ci vogliono le maniere forti, qua!” Mi avvicino al frigorifero e afferro una bottiglia di tè alla pesca da un litro e mezzo. Vi giuro che me la sono scolata tutta durante il ritorno. Alla guida, con la bocca attaccata alla bottiglia come un bambino col suo biberon. Le conseguenze sono state imprevedibili (per me che non so prevedere neanche cosa uscirà se lancio una moneta con testa da un lato e dall’altro) riassumibili in un’agitazione per le successive due ore e, pur non essendo Rocchetta, anche tanta plin plin.
Non bevete mai un litro e mezzo di tè, insomma.
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