Torno dal professore, armato del mio irresistibile sorriso di latta e di un taglierino affilato. Dopo la lunga assenza dal suo studio, che ricorda più una sparizione, non si sa mai che provi a inscenare la pantomima del finto tonto che non mi riconosce. Prima di me un ragazzo decide di aspettare che Birba si scolli dal cellulare narrandomi di quanto fosse stato sicuro stavolta di aver superato l’esame per poi rimanere deluso, perché lui il metodo del simplesso lo conosce benissimo (che non è l’amplesso, quello lo conosco pure io). Che gli tornava lo stesso risultato, ma il professore gl’aveva dato soltanto 3 punti su 6 a quell’esercizio e quindi niente di fatto, ma lui vuole vedere il compito. Vuole vedere, perché è convinto che sia stato Birba a sbagliare. Ha altri esami da preparare e non possono rovinargli i piani così. E io son d’accordo, ma neanche lui può rovinare la giornata a me che delle sue disperate vicissitudini me ne sbatto. Entra, viene divorato. “Sta aspettando me?” domanda, facendo capolino fuori la porta. No, la prozia di mio nonno, vorrei rispondere. “Prego, si accomodi!” Mi siedo e solo per qualche millimetro non mi ribalto su quella sediolina girevole francamente pericolosissima. Esclamo: “Ops!” aggrappandomi al tavolo. “Mi dica!” “Eh, intanto mi scusi se ho lasciato passare così tanto tempo.” “Così tanto tempo da cosa?” “Dall’ultima volta che ci siamo visti.” “Ah, perché ci siamo già visti?” Quanto sei prevedibile! Io, che son arguto, tiro fuori il taglierino la cui lama risplende al sol artificiale del monitor del PC nuovo, grande come quello della tv del mio salotto. Chissà come mai, in quel preciso istante, proprio quando il luccichio del lindo metallo gli bagna l’iride, lui si ricorda di me. “Lei è quello che lavora da Mc Donald’s, ricordo. Ne è passato di tempo!” Ripongo il taglierino. “Ho studiato quella parte che mi aveva assegnato.” “Io non ricordo neanche quale.” I miei occhi gridano: Stai attento che stavolta il taglierino lo uso! “Allora mi parli di quello che ha studiato.” Parto con la mia pappardella a cui pone fine dopo neanche mezzo minuto con un: “Va be’, queste sono cose semplici semplici…” Io mi azzittisco pensando che per capirle vagamente ho impiegato mesi, mentre lui volta le paginette del mio quadernone, opportunamente scritto per dimostrare il mio indiscutibile impegno, come se stesse manipolando fogli di diarrea di suino essiccata. Si trascina al PC e mi domanda: “Lei legge in inglese?”. A quel punto potrei rispondergli: Of course! Ma, chissà perché, la mia bocca sputa fuori un: “Ehm…” tremolante. Poi penso che in fondo lui m’ha chiesto se leggo in inglese, mica se capisco quello che leggo, nel caso in cui mi trovassi nella remota costrizione di dover affrontare pagine in idioma anglosassone, che son 2 cose diverse e allora, tossicchiando, faccio un cenno affermativo. “Wagner Whitin lo conosce?” “Chiii?!” “È un algoritmo!” “Ahhh!” “Allora…” legge un file pdf che ha appena scaricato in funzione di una qualche ispirazione improvvisa, uno a caso da Google. Mi immobilizzo sulla sedia francamente pericolosissima e penso che se mi fa leggere in inglese è la volta buona che espatrio, mentre lui borbotta: “Cos’è ‘sta roba…” poi si volta verso di me e: “Va be’, facciamo così. Incentriamo il suo esame sullo studio di un caso. Lei si studia Wagner Whitin, poi si dà un’occhiata a questo articolo (di 55 pagine in inglese) e vediamo se ha le capacità per comprendere e farmi comprendere cos’è che fanno questi signori.”
Lascio lo studio di Birba inebriato da nuove speranze, perché ha pronunciato ancora una volta la parola esame, ma ho come la sensazione che io quelle capacità di cui parla non tanto ce l’ho. Però la speranza non l’ammazza nessuno – si sa – la mia poi…
Lascia un commento