Ho perso il piacere di fare serata a L’Aquila; ieri mi sono ricordato il perché. Quando torna un amico da fuori (lontano), è una gioia intima che festeggio con un brindisi alla prossima, a questa, all’anno tutto intero che guardo con attesa. A quello che potrebbe cambiare, ma chissà come mai, non. Alla vicinanza, all’abbraccio. All’amicizia insomma, e quindi usciamo. È giovedì, ci sono gli universitari. Non per niente lo chiamano il giovedì universitario. E dove vanno?
Prima c’erano le baracche sul Viale Della Croce Rossa. Il nome lasciava presagire il destino di quei chilometri d’asfalto: i punti di ritrovo per sfasciarsi di vino, super-alcolici e drogarsi; adesso giacciono semi-disabitate e silenti. Se dipendesse da me le smantellerei una dietro l’altro. Non mi è mai parso bello travestire una larga strada di passaggio da bidonville.
A quasi 3 anni dalla scossa, il centro è tornato in parte percorribile. Da solo, mi verrebbe da dire. Sì, una specie di magia. Qualcuno ha raccolto la sfida di aprire un disco-pub proprio in mezzo a un cimitero e i fatti gli danno ragione. Un fiume di ragazzi e ragazze migra verso il Corso e si dirama in quelle 3 viuzze, infilandosi nei locali. Ben vengano sempre i volti giovani e gli occhi vispi, in questa non-città alla quale resta la loro speranza e poco più. È un fenomeno di rara intensità. I corpi si avvicinano e si fondono fino a diventare un impetuoso magma umano che travolge tutto quello che incontra, compresi noi che vorremmo proseguire in un’altra direzione e invece ci ritroviamo dentro lo Zenzero, a far parte a tutti gli effetti di un tappo di carne che chiude il locale ermeticamente. Se è vero che è difficile trovare posto, con questo freddo poi, che tutti si riversano all’interno, è altrettanto vero che, se lo trovi, sappi che è per sempre, come un De Beers. Da lì riuscirai soltanto a fine serata, è una promessa. Non ci sarà molto da aspettare. Le serate di questi tempi durano meno, e non per l’ora legale/solare, ma perché il signor Sindaco Cialente ha emesso un’ordinanza che obbliga i gestori a chiudere bottega al massimo all’1na di notte il giovedì e il sabato e, udite udite, a mezzanotte in punto i giorni feriali. Bisogna far presto se no la carrozza ritorna zucca. Quindi diventa un episodio normale che all’1na meno 5, con ancora in mano il bicchiere di plastica da 0.2 con 19 blocchi di ghiaccio e il resto lemonsoda (e il Gin? Boh!), mi si avvicini un energumeno: “Ci accomodiamo fuori? Grazie!” e mi dia una spinta verso la porta. Il motivo è di ordine pubblico. Come quando a scuola un bambino spacca una mazza di legno in testa a un altro e la maestra mette in punizione tutta la classe con mezza Divina Commedia da imparare a memoria. Non si fa, e per L’Aquila è doppiamente deleterio perché va a colpire il tessuto sociale ed economico, rianimato dallo stato di morte in cui versava proprio dagli studenti, che sono tornati, che l’hanno scelta nonostante tutto (e quanto tutto ci sarebbe da raccontare), che in fondo ‘sta città la amano e a L’Aquila ci pensano.
Chi ci pensa a loro? Che:
– Si sono adeguati a strutture universitarie fatiscenti, arrangiate, ordinamenti didattici che se li racconti paiono barzellette, che però fanno piangere.
– Non hanno un teatro vero, un cinema soltanto, tenuto malissimo – mi permetto di dire – ché accomodarsi sui rimasugli appiccicosi di pop corn e caramelle non è piacevole, come non lo è dover scegliere fra 5 film, i soliti 5. Anzi 4 ché Natale a Cortina di De Sica necessitava giustamente di 2 sale, semivuote, ma comunque 2.
– Cercano alternative in una città che non c’è. E non valgono le mezze misure, né è facile immaginare quanto può non esistere una città.
Io esco poco, non fa niente. Mi rintano in casa. Leggo, scrivo, sogno, una cenetta di tanto in tanto. Ma loro di anni ce ne hanno 20 e 25. Bisogna accudirli, sostenerli, creare diversivi, passatempi, iniziative, farsi guidare dalle loro necessità, cavalcare le loro idee, che sono potenti come uragani.
Cacciati in malo modo ci rimettiamo in macchina. Lo riaccompagno a casa. Noto una volante della Polizia dietro, che svolta sempre dove svoltiamo noi e arriva fin dentro il piazzale. Il piazzale di casa sua, proprietà privata. La mia automobile e quella della Polizia che ci ha seguito, seguito come criminali. Accosta alla mia automobile spenta.
“Buonasera, abita qui?”
Il mio amico risponde: “Sì”, io avrei risposto: “No, stiamo perfezionando il piano per una rapina seriale a tutti i condomini del quartiere”.
“Un documento ce l’ha?”
Il mio amico gli passa la Carta d’Identità dal finestrino. Lui la guarda e gliela restituisce. Aspetta qualche istante poi torna in macchina. Ci saluta, ma non se ne va subito. Parlotta col suo collega a fianco. Ci saranno rimasti male, magari si aspettavano che li invitassimo a prendere un tè in salotto.
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