Mentre imbevevo di grandi lacrime l’ultima pagina de L’eleganza del riccio, mi sono ricreduto sull’impressione che le cose, sul finale, stessero procedendo un po’ troppo in fretta. Più che un’osservazione critica, la mia si è rivelata una forma di dispiacere simile a quello che si prova durante il viaggio di ritorno verso casa da una vacanza bellissima. Fin dal primo momento sei consapevole della brevità dell’esperienza, che nasce proprio come momento di divagazione per spezzare il quotidiano a te destinato. Sai che finirà, e non può sorprenderti l’arrivo repentino del termine ultimo, l’istante in cui metti piede in macchina, chiudi lo sportello e saluti sorridendo dal finestrino coloro i quali non conoscevi e che vorresti frequentare indefinitamente per tutto quello che hanno saputo depositare nel tuo terreno fertile. Così mi sono sentito quando ho chiuso L’eleganza del riccio, per non poter più rivedere la portinaia Renée Michel e la piccola Paloma; dover lasciare il maestoso palazzo al numero 7 di rue Grenelle – Parigi, con le famiglie facoltose che lo abitano e le comprensibili superficialità di cui Renée non ha nessuna voglia di farsi carico. Per fortuna ero solo a piangere, accovacciato dove ci si accovaccia in bagno, nel mio sacro primo momento di lettura mattutina. A vedere un quasi trentunenne piangere, come un adolescente ai titoli di coda dell’ultima puntata di Dowson’s Creek, non è che ci si senta proprio in mano a una salda gioventù. Non mi capita spesso di commuovermi per un libro, più per un documentario, per dire. Ricordo benissimo l’elefantessa partoriente su Rete4. Non ci riusciva, alla ricerca della giusta posizione fra lamenti di dolore, e un’elefantessa che si lamenta non emette esattamente il cinguettio di un fringuello. Finché ce l’ha fatta. L’applaudivo, steso sul letto a pangia in giù e, con la bocca impastata di bava emozionale, esclamavo: Che bello! La commozione non è indispensabile per decidere una buona storia, come non è intento di tutti i bravi autori provocare la discesa di una lacrimuccia dagli occhi del lettore. Certo che, quando capita così come è capitato a me, non può che essere figlia di un coinvolgimento fisico e mentale, e questa sì che è un’ottima variabile decisionale. Per scegliere se acquistare oppure no un libro, che ha già venduto tanto in mezzo mondo, cerco sempre di rispondere a un interrogativo che mi autopongo, spesso pure ad alta voce: Come mai, secondo te, sta piacendo a così tanta gente? Che tipo di lettori sono costoro che lo amano? Sono o potrebbero essere inclini a te (me), oppure proprio no? Faccio un esempio partendo da una premessa rischiosa: Federico Moccia è uno che vende molto. Vi prego, andate alla ricerca dell’aspetto costruttivo guardando oltre, leggendo fra le righe; non limitatevi all’insulto intrinseco nell’esempio stesso, che vi rassicuro c’è, però c’è anche dell’altro insomma. La domanda che mi autopongo in libreria è: Cosa abbiamo in comune io e i lettori dei libri di Moccia? Si potrebbe rispondere frettolosamente: Niente! marcando il punto esclamativo fino a strappare il foglio, ma vi assicuro che non è così semplice. Ogni risposta va motivata attraverso documenti inconfutabili o almeno una serie di indizi utili, altrimenti rimane soltanto un’opinione che non può assicurarmi che, sempre per esempio, io non sia il lettore ideale dei libri di Moccia. (Aaahhh dolore!) Così mi metto alla ricerca delle mie risposte che trovo nei suoi lettori e lettrici entusiasti, perché è con quelli che devo confrontarmi per capire se potrò essere uno di loro, e quindi se vale la pena, per me, acquistare un libro di Moccia. Li studio sui social network, leggo i commenti lasciati sotto alle schede nelle librerie virtuali e, signori, no. Io non sono così. Non potrei mai essere amico di una che, per scrivere perché, utilizza 2 caratteri soltanto, contando pure l’apostrofo dopo la X, oppure di uno che aggredisce i detrattori esordendo con: Voi non capite gnente dei giovani che racconta Federico. Ma gnente scritto proprio gnente. Questa indagine non vuole stabilire se Moccia è la voce più talentuosa della narrativa moderna o un disadattato arricchito col cappellino, ma dà a me la certezza che le sue opere non toccherebbero le mie corde, non nutrirebbero la mia fame (ma riscalderebbero il salotto di Villa Madre forse più del pellet ecologico che alimenta la stufa).
A questo punto dico che vorrei diventare amico di quanti più lettori possibili de L’eleganza del riccio. Coloro che hanno invidiato l’abilità di Renée nel celare la sua vera natura: la cultura, gli interessi e la grandezza interiore che per nulla si confà all’immagine di una portinaia, l’ultima della scala sociale per chi continua a darle compiti, ma non fa un solo tentativo per riuscire a vederla davvero. Coloro che hanno amato Paloma, sorprendendosi di imparare tanto da una ragazzina con istinti suicidi e incendiari, che non riesce proprio ad apprezzare la vita perché in gabbia, lei che si riscopre così simile a Renée. Coloro che hanno capito subito che il nome del gatto Lev era ispirato al grande Tolstoj, e si sono emozionati perché Anna Karenina resterà sempre uno dei più bei romanzi che abbiano mai letto. Coloro che sanno cos’è una pioggia d’estate, che colpisce e non risparmia niente, e l’hanno saputa superare e pure apprezzare perché li ha cambiati e in meglio. Beh, sarebbe bello essere amici.
Lascia un commento