Ero uno sprovveduto e ansimante apprendista opinionista scrivente letterario. Presi 4 o 5 frasi da una recensione scritta da una fanciulla non conosciuta ai più e le infilai nella mia recensione nuova di zecca dello stesso romanzo che, grazie alle di lei osservazioni stilose, scintillava. Tutto filò liscio, io mi presi i complimenti di quei 4 lettori e una banana della mia recensione, e bon. Un giorno di qualche mese dopo, mi arriva un’email dall’autrice della recensione originale. Non aveva gradito, e lo manifestò liberando il demonio che la possedeva. Aveva ragione, pure se io in quell’occasione pensai: Mammasaura, quante storie per 4 frasi! Quelle frasi erano state partorite dalla sua testa, dalla sua parte emozionale di lettrice. Sarebbe stato giusto citarla. Questa è la mia ammissione di colpa. Per comprendere il fastidio nello scoprire altrui bocche riempite di parole non a loro appartenenti, dovevo viverlo sulla mia pelle. Ed è capitato. Qualche anno fa, un geniale e neanche tanto giovane autore ha letto il mio libro Non farmi male, e mi ha scritto facendomi molti complimenti riferiti soprattutto ad alcune scene che l’avevano colpito. Poi che ha fatto, questo qui. Ha scritto 7 racconti dalla tematica vicina (come 7 ce ne sono nel mio) sul cui valore letterario non sto a spendere troppe parole, se non un consiglio all’autore: Fatti regalare un dizionario della lingua italiana degli anni 2000, e paga un bravo editor. Ci ha infilato le scene di Non farmi male che tanto gli erano piaciute, modificate a parole sue, quindi imbruttite, ma evidentemente riconoscibili nella sostanza. Ha dato alla sua opera un titolo che sarebbe il mio con una parola cambiata. E se l’è autoprodotto.
Ah-ah-ah!
Quando ci ripenso, mi scappa sempre una risata con rigurgitino. Prima plagi e poi ti paghi la pubblicazione? Dritto dritto da uno psichiatra di un certo livello. Avanti, marsch! Nonostante avessi il sostegno morale ed economico del mio editore, non ho seguito l’iniziale intenzione di entrambi di denunciarlo per vederlo brancolare nell’oscurità, a chiedere un piatto caldo senza neanche più le mutande. Cosa che avrei fatto se mi avesse copiato Ammaniti, per dire. Ma, visto che si trattava di un poveraccio che si era pure indebitato per pubblicare un libro plagiato, ho avuto compassione del caso umano e non gli ho neanche scritto un’email. L’ho trattato come tratto abitualmente i lettori di Moccia: non l’ho trattato.
Il discorso sarebbe cambiato se mi avesse plagiato Ammaniti, dicevo. Figuriamoci poi se Saviano avesse riempito i suoi celebri monologhi mafiosi di paragrafi di Supermarket24 – cosa che ci sarebbe stata tutta, visti i personaggi – e avesse dimenticato di citare la fonte davanti a milioni di telespettatori. Non ci crederete, ma l’ha fatto. Non con me, ma con Giampiero Rossi, autore di La lana della salamandra e Amianto, libri dai quali Saviano ha pescato aneddoti, circostanze, retroscena che l’autore aveva raccolto in mesi di frequentazione della gente di Casale, li ha imparati a memoria e ha fatto il figheiro recitandoli a pappardella davanti alle telecamere, fra una grattata di culo e una di testa, come se quelle informazioni appartenessero a lui. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato una tabella che mette in relazione le precise frasi pronunciate in diretta da Saviano con quelle presenti nei libri di Rossi. Segue.
Mi pare che ci sia poco da stare a riflettere. Giampiero Rossi vive la spiacevole avventura di seguire Saviano in tivù che s’impolpetta la bocca con i suoi libri, e che fa? Afferra un giavellotto olimpico e glielo infila su per il culo? No, gli scrive una lettera che Il Fatto Quotidiano pubblica e che vi consiglio di leggere, se siete arrivati qua e non l’avete fatto. Reazioni dal più ricercato scrittore italiano non pervenute. Se è vero che il lupo perde il pelo, ma non il vizio, e Saviano c’ha proprio la faccia di un vecchio lupo di mare spelacchiato, torna alla carica dello scopiazzo con la prefazione commissionatagli da Legambiente per la pubblicazione annuale di Ecomafie, edizione 2012. Il libro contiene, fra gli altri, l’intervento di Giovanni Tizian dal titolo Il Sacco del Nord, nel quale – magia! – compaiono gli stessi concetti, espressi con le stesse identiche parole utilizzate da Saviano nella presentazione, non immaginando – voglio sperare per la sua sanità mentale – che quel testo se lo sarebbe ritrovato nel libro poche pagine più in là. I Segreti della Casta ha pubblicato l’immagine che affianca i passaggi quasi identici. Quasi però, perché lui ci vuol mettere sempre del suo. Divertitevi a fonfrontarli.
Quelli di Legambiente si sono presi la colpa, poveretti, scusandosi per un problema di editing francamente dalla credibilità fantascientifica. Lo dimostrano proprio i piccoli cambiamenti stilistici operati da Saviano prima di consegnare la sua prefazione, che rendono gli spezzoni diversi quanto basta per gridare al plagio. Questa ennesima brutta faccenda instilla nelle maliziose menti dei più (compresa la mia) il dubbio che Gomorra sia il risultato di un intelligente collage di materiale raccolto da altri sul campo, che Saviano avrebbe abbellito e romanzato, aggiungendoci il solito suo. All’epoca del boom, più che le minacce della Camorra, mi colpì la protesta di molti cronisti locali che affermarono che erano stati utilizzati da Saviano, per il libro, brani dei loro articoli senza citare la fonte, ma la sentenza del tribunale di Napoli stabilì il contrario, e cioè che erano stati loro a scopiazzare Gomorra. Comunque.
Caro Giampiero, non ci conosciamo, ma permettimi di regalarti un consiglio spassionato. La lettera, la prossima volta, invece che dal Fatto Quotidiano, fagliela recapitare dal tuo avvocato. Vedrai che ti risponderà di certo. Come risarcimento, pretendi di pubblicare anche tu con Mondadori e vendere 3 milioni di copie, e fare i monologhi su La7.
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