Quando i rumori non se ne stanno più buoni sullo sfondo e diventano un barbarico frastuono che ostacola i pensieri. Quando il suono dei tuoi passi viene assorbito dallo strombazzare dei clacson delle automobili e dalle urla di donne isteriche che riprendono figli schizzati. Quando gli altri esprimono il giudizio che hanno maturato di te e dei tuoi comportamenti, neanche fossero ospiti d’onore di un talk show di tronisti e corteggiatrici, senza aver mai capito come la pensi. Gli altri, quelli che dicono di conoscerti per quel paio di mesi di giorni nello stesso posto, qualche volta a parlare. Come se non fosse permesso cambiare opinione. Come se scavare non sia sintomo di volontà di capire e non possa magari capitare di scoprire che si è sbagliato a dire e pensare quello che si è pensato e detto. Come se io dovessi giustificare ogni spostamento, ogni risata, ogni serata, ogni bicchiere, ogni idea. Come se ogni azione debba per forza risultare la conseguenza logica di un’intenzione. Tu conosci l’intenzione e conosci l’azione, ma ignori del tutto il segmento di chiarimenti, spiegazioni che hanno determinato la trasformazione dell’intenzione nell’azione diametralmente più imprevedibile. Nella tua ignoranza, inteso come non conoscenza dei fatti, scrivi di me senza fare il mio nome e poi mi saluti, abbracci e baci col sorriso. Non che se lo fossi davvero, incoerente, debba risponderne a qualcuno. Non voglio difendere la mia coerenza, che non ho mai perseguito, solamente delineare l’aria che respirando mi suggerisce di fermare tutto.
Quando le voci che inviteresti a trasferirsi nel tuo padiglione auricolare le senti di meno. Quando le serate che vorresti vivere sono troppo lontano da dove stai tu. Quando ti guardi allo specchio e nel tuo volto leggi l’invulnerabilità, e allora ridi da solo che non è la più bella delle risate. Quando fuori piove e dentro grandina. Quando hai da mangiare, bere, vestire, un lavoro, un obiettivo grande e uno immenso, eppure ti manca il resto. Quando il filo d’acciaio su cui cammini vibra e tu con le mani ricerchi un volo che ti tenga lassù ogni istante un istante in più. Quando Giuda abbracciava e baciava in modo più convincente di chi lo fa con te. Quando il tempo è sempre più perso e sempre meno. Il tempo non è mai tanto quanto sembrerebbe e io lo sto sprecando pure adesso, che scrivo un post mosso dallo sconcerto di certi piccoli cervelli in azione.
Quando è autunno e vorresti l’inverno e poi l’inverno non ti basta, la primavera non arriva e l’estate la scongiuri, il tutto per una risposta. Quando la compagnia non è degna di te, o tu di essa – esiste questa eventualità, è quasi sempre un problema di linguaggio e a te ancora nessuno offre il dono di comunicare con gli animali – allora è il momento di ricercare una sacra solitudine.

2 risposte a “Una sacra solitudine”

  1. Matteo
    Matteo G

    Sono diverse le specie di animali tutte attorno a me. I pappagalli sono bellissimi e loro non sono pappagalli. Pure chi non lo mette in azione mi provoca sconcerto. Che poi c’è da capire se certe azioni siano la conseguenza dell’azione di un cervello sottosviluppato o della non azione. Boh!

  2. Avatar RedCherryJam

    Non c’è bisogno di imparare il linguaggio di una massa di pappagalli, si sfoggiano colorati ma ripetono ciò che sentono da te, oppure imitano qualcuno che si fa più grande alzando ancor di più la voce. Il vero sconcerto io lo troverei in quelli che il cervello non lo mettono proprio in azione…

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sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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