“Mica l’ho fatto apposta a premere! Cioè sì, ma non sapevo che il finestrino si sarebbe chiuso… Non guardarmi in quel modo! È chiaro che sapevo che, premendo il pulsante, il vetro avrebbe cominciato a salire fino a chiudersi – lo sanno tutti, è così che funzionano i finestrini -, ma non che l’avrebbe fatto sulle tue dita, ecco.”
Aggressivo come le fauci di un alligatore a dieta da 3 mesi, aggiungerei alle sue risate. Da quando ho scritto della mia amica, che di professione fa l’amputatrice improvvisata, e di quello specifico tentativo di fare pratica sulla mia persona, in macchina, direzione Pescara (per leggerlo clicca qui), attiro inevitabilmente la derisione popolare con la facilità con cui Kobe Bryant centra un canestro. È sufficiente una parola tipo dito o dita (o a essa collegata es: mano è ovvio, ma pure dittatura per dire, che la contiene) a far salire un risolino sulle labbra dell’interlocutore concentrato a nasconderlo, ma io lo capisco subito che ha letto il mio post delle dita schiacciate dalla mia amica. Pensate che Marco ha pure aperto un gruppo su Facebook a cui ha dato l’eloquente nome Le dita schiacciate di Matteo Grimaldi.
Ebbene, nonostante sia consapevole della pericolosità dell’argomento, mi tocca parlarne ancora perché ci sono degli sviluppi. Ieri mi sono deciso a recarmi dal mio medico di famiglia per chiedere lumi su una pallina misteriosa parcheggiatasi, in data e ora non ben definite, alla base del dito medio della mia mano sinistra, e su un accartocciamento sospetto della pelle del dorso dello stesso dito medio e pure dell’indice.
Arrivare sul tardi per aspettare di meno funziona quasi sempre, tranne ieri. Il container è affollatissimo di donne scalpitanti tenute a bada dalla simpatica segretaria Gab alla quale, con barbaradursiana espressione contrita, mi rivolgo: “Scusami, non ho preso appuntamento…”.
“L’appuntamento non si prende più, ti segno nell’elenco” mi risponde mentre aggiunge il mio nome alla fine della lista su un post-it incollato sul bordo del tavolo.
L’attesa sembra destinata a durare parecchio. Le signore brontolano, sbuffano, guardano l’orologio, riflettono ad alta voce sul poco tempo che la vita riserva. Loro che devono pensare sempre a tutto, a partire dalla cena che bisognerà arrangiarsi perché ormai la Coop sta chiudendo. Qualcuna si destreggia, tentando di coinvolgermi, in ardue operazioni matematiche per calcolare a quando il suo turno. La confidenza di una donna a una donnona impellicciata diventa l’argomento di discussione per tutte loro con l’orecchio teso. La donna non riesce a mangiare la carne di un allevatore di sua conoscenza perché, nonostante l’ovvia genuinità, ha sempre un retrogusto cattivo. Tutte danno il loro contributo.
Gli animali vanno ammazzati e trattati in un certo modo prima di cuocerli e servirli a tavola. Per esempio, il coniglio, innocuo, piccolo e scattante nelle vaste praterie di Nonna Papera, se non lo lasci per un paio di giorni a ripulirsi, attraversato dall’acqua limpida possibilmente di un fiume di montagna, sa di cacca. Immangiabile così come i suini, che vanno scannati immediatamente dopo il colpo di pistola, altrimenti il sangue non esce nella sua totalità e la carne assume un sapore forte che molti attribuiscono alla mancanza di conservanti, il sapore della carne nostrana che si riconosce, e invece no. Non è vero che la carne sana deve per forza fare schifo. Il retrogusto delicato non glielo danno i trattamenti commerciali che subisce fino all’impacchettamento, ma qualche fondamentale accorgimento. Le bestie non devono potersi muovere troppo nel corso della crescita. Bisogna allevarle in recinti stretti, perché se no la carne è stopposa e non la tagli neppure con una motosega, e quando mastichi non va giù.
Io non ho proferito parola e, per tutto il tempo, ho valutato seriamente l’eventualità di diventare vegetariano.
La pallina è una piccola cisti causata, sembrerebbe, dalla cicatrice che la ricopre, ricordo di bambino curioso al quale non era sufficiente la spiegazione di Madre: “Nella clessidra c’è la sabbia del mare”. No, dovevo verificare cosa fosse la polverina che, capovolgendo la clessidra, scandiva il tempo e così l’ho sfondata con una matita. I vetri mi hanno sfondato il dito.
“Se la incidiamo, facciamo più danni che altro. Tienitela che magari, all’improvviso, per un’involontaria pressione, scoppia, il liquido si disperde sotto la pelle e te la togli dalle scatole senza intervento. Quelle sul polso una volta si facevano scoppiare con una moneta da 100 lire.”
La luce sadica nei miei occhi deve averlo convinto ad aggiungere: “Non è che ti ci dai una martellata? Che ti spacchi il dito e la cisti rimane là”. L’ho rassicurato, mentre cominciavano già a materializzarsi i primi abbozzi del mio piano fai da te a cui ho dato il nome Maledetta cisti, esplodi! e che sto mettendo a punto in queste ore. Quando gli ho fatto vedere i bozzetti secchi sull’indice e sul medio, ha detto: “Sembrano dei semplici calli”.
“No, perché si evolvono. Crescono, è come se qualcosa camminasse piano piano, negli anni, e mi distruggesse la pelle.”
Ha sgranato gli occhi: “Non ho mai visto niente del genere”.
Mi toccherà pazientare per una ventina di mesi perché io non c’ho soldi per farmi visitare da un dermatologo nel suo studio privato. Quando arriverà il giorno dell’appuntamento in ospedale, probabilmente avrò perso l’uso della mano sinistra, ma mi consolo. Pensate se fosse stata la destra! Con la sinistra riesco a farmi a malapena il bidet e poco altro… ehm.
Tanto che c’ero mi sono fatto assegnare un check-up di analisi completo, che sono 3 anni e più che non mi do una controllatina. A casa ho condiviso il responso del dottore con Madre. Naturalmente lei ne sa sempre una più del Dialogo, figuriamoci di un comune medico di base, per quanto bravissimo (il mio non lo cambierei con nessun altro al mondo) e quindi ha sentenziato: “Quello è un cumulo di grasso”.
“No, è una cisti dovuta alla cicatrice che ha modificato la natura della pelle e…”
“È un cumulo di grasso. Continua a mangiare così e vedrai quante altre ne spunteranno!”
“Ma non sono ingrassato neppure di un etto!”
“Tu no, ma il tuo dito sì, e pure parecchio, mi pare!”
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