Le fotografie delle famigliole sorridenti, davanti alla nave semi-affondata, tristemente celebre di Costa, hanno riaperto una ferita. Un gran vociare su una strada non più abituata. Pantaloncini, t-shirt dai colori accesi della piena estate, zainetti in spalla, cappellino, una mano nella mano del proprio bambino e la digitale, pronta a scattare, nell’altra. Li guardo tutti, tanti provenienti da ogni parte d’Italia, pochi pure da qualche città degli Stati vicini, passeggiare a pochi metri da me, che mi sento un alieno nella mia città, che non posso riconoscere in quella condizione alla quale ancora non mi abituo, ora che sono passati quasi 3 anni, figuriamoci a poco più di un anno dalla fine del mondo. Ognuno ha un mondo suo, e non occorre che finiscano tutti in sincronia per poter dire che è finito il mondo. Il mio è finito il 6 aprile del 2009. Ne ho ricostruito un altro fatto di pezzi che non si incastrano, un mondo riciclato, fai da te, senza istruzioni, con materiali poveri tenuti assieme da un incalcolabile amore per la vita, pure nell’assenza.
La vita genera vita in una moltiplicazione che ha inizio in un punto, il principio nel quale sta il seme, in attesa di acqua che lo nutra e faccia spuntare microscopiche radici che attecchiscano alla terra e trovino, in uno stelo sottilissimo, la forza di attraversarla. Io ho visto la vita rinascere dal niente, dove non c’erano semi, come un miracolo che non voglio condividere, che non voglio raccontare, del quale non m’importa parlare, il mio miracolo, intimo, nel buio di una solitudine sconosciuta, infastidita a morte da tutto quel chiacchiericcio a L’Aquila, in Via XX Settembre, a Ferragosto del 2010.
Chiudo gli occhi ed entro in uno di quei palazzi. Mi permetto di farlo solo col pensiero, pur sapendo di non esserne degno. Facilissimo farlo solo col pensiero, quando qualcuno, molti, avrebbero voluto trovarsi a mille miglia da lì, o anche appena fuori, e invece erano dentro, non per loro volontà, a vivere gli ultimi istanti, quando avevano 100 anni ancora davanti, dio mio. Dall’interno, lo spettacolo sovrumano di tanti esseri (sovr)umani in gita fuori porta a L’Aquila, il giorno di Ferragosto, ha fattezze peggiori, perché più dolorose, come frecce che congiungono i sorrisi, all’ingiustizia di bocche abbandonate su pietre; le mani intrecciate, all’ingiustizia di mani ferme su pietre; le passeggiate di Converse, all’ingiustizia di gambe e piedi immobilizzati dalle pietre; tanta felicità, all’ingiustizia di una incommensurabile infelicità eterna, di chi non avrà più motivo di vivere, ora che manca chi il motivo lo accudiva, eppure deve vivere per forza; il bisogno di fermare con un click le proprie facce sorridenti davanti all’abisso, al buio, al silenzio lasciato dal boato, preceduto dalla gioia giovane di chi L’Aquila la sceglieva e poi imparava a voler bene a ‘sta città, nonostante tutto.
Torno in me, ad abitare il mio corpo immobile in un punto qualunque della strada, chiedo ancora scusa per aver calpestato, seppur solo con la mente, i pavimenti delle vostre stanze vuote, anzi, piene zeppe di dolore, perché tutto si avverte tranne il vuoto, in questo pieno che fa male. Da qui, fermo sul marciapiede, mi domando cosa ci fanno tutti su Via XX Settembre.
Non si rendono conto di essere l’unica forma di vita in questa strada? E allora perché permettono ai loro bambini di schiamazzare, perché implorano l’un l’altro di fotografarsi, perché si incitano e si consigliano pose carine, pose ammiccanti, pose da luna park?
Le fotografie dei turisti del macabro, con sullo sfondo mezza nave, hanno riportato in alto l’interrogativo. Non ho ancora trovato una risposta alla voluttà di comparire davanti alle macerie di una storia dal pessimo finale.
Senza condanna, per carità, con un misto di pena e vergogna, certamente, e nessuna, nessuna spiegazione.
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