Per tornare da Firenze a L’Aquila c’ho impiegato sette ore. Altre tre soltanto e avrei ricevuto, fra gli applausi scroscianti della Laguna Macao tutta, un kg di pasta, quattro pomodori, dodici telline e una padellina monodose per fare il soffritto come premio ricompensa per la prova superata. Sono arrivato a L’Aquila a mezzanotte e mezza. Si ringrazia per la gentile collaborazione il locomotore che ha smesso di funzionare e che ha costretto i poco equilibrati (me compreso) passeggeri del regionale a restare ad aspettare la partenza per più di quaranta minuti accovacciati sul sedile come sacchi di patate. Quell’umido afoso s’incolla al corpo e accentua la produzione, senza sforzo, di bottiglie di bibite saline tiepide gusto sudore. Quando uno dei controllori, correndo, ha frettolosamente gridato, mangiandosi cinque parole su otto: “È quasi tutto a posto, ma partiamo ugualmente!” l’ho fermato e: “Che vuol dire quasi? Se il treno è a posto partiamo, se no no!”. “Partiamo!” mi ha risposto lui con tono perentorio prima di riprendere la sua traversata fra gli scompartimenti. Ecco, mo’ deragliamo, così, dopo il terremoto, la mia collezione di catastrofi vissute sarà al completo, ho pensato.
Dopo la notizia dell’altro aereo precipitato con un solo superstite (nello scorso post ho scritto che i superstiti erano due. Mi perdonino i parenti del pilota, che si saranno illusi leggendo nella Stanza che il loro caro era sopravvissuto, ma devo correggermi. È sopravvissuta soltanto Baya Bakari, ragazzina di quattordici anni, rimasta per oltre dodici ore aggrappata ad un pezzo d’aereo in balia del mare) mi verrebbe da dire che non è proprio il momento migliore per guardare il mondo da un oblò e annoiarsi un po’. Il deragliamento del treno con me a bordo, in quest’aria da perenne disastro imminente, ci stava tutto. Poi ho letto l’oroscopo alle ultime pagine di una copia di Intercity di Roma, abbandonata sul sedile accanto al mio, immediatamente riempito dal culo di un vecchio che puzzava di vecchio, che diceva: Non c’è un aspetto della vostra vita che non andrà a gonfie vele. Accogliete tanta fortuna con ottimismo e grinta, godendo di tutto quello che di bello vi accadrà d’ora in poi e mi sono sentito subito meglio.
Sono arrivato a casa che puzzavo, ma talmente puzzavo che Italia e Nerozza, le mie due tartarughe d’acqua, hanno vomitato in sincronia alternata in segno d’affettuoso saluto: Italia prima, Nerozza poi, di nuovo Italia e infine Nerozza, che ha chiuso lo spettacolo espellendo dal suo deretano una pietra traslucida, di quelle che fanno bello l’acquario e che loro inghiottono per digerire (mi auguro sia normale questa cosa), come i cani fanno con l’erba, o mia sorella con le pasticche dell’erborista rumena.
Il fatidico terzo giorno volge al termine. Dovevano accadere cose determinanti e così è stato. Ora aspettiamo le evoluzioni anche se ho la netta percezione di aver tratto da questi giorni il massimo possibile, anche se poi non dovesse arrivare altro. Mica perché ieri ho preso venticinque all’esame. No, quello non è legato affatto allo stato di beatitudine che mi ha cullato per l’intera giornata. Affatto proprio. Mica perché quello che ho sostenuto a novanta km da L’Aquila – la sede l’hanno sbaraccata a Corropoli (corro che?), notissimo (alle linci e ai lupi) paesino della provincia teramana – era l’ultimo esame.
Capito? L’ultimo! Finiti. The end.
Ma no, non è per questo che sto da sedici ore espellendo continui e ininterrotti flussi di sperma sulla trapunta del letto. Ho studiato sputando sangue su quelle pagine per mesi. Ho studiato pure alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, sul binario 11, in attesa del regionale. Ho studiato pure sul regionale, per calmarmi, scansando il pensiero di prendere a calci quel controllore panciuto. Ieri mi sono svegliato alle sette per ripassare dopo essere andato a dormire alle tre. Non che pretenda un riconoscimento diverso dal Mongolino d’oro, tutto questo per dirvi che mi sento fiero di me. Perché non ho mollato la presa. Ora mi sa che non ho più scuse. Nel pomeriggio scrivo a un professore che mi è simpatico. L’ho incontrato che usciva di fretta da un’aula e gli ho domandato dove fosse il Mostro col quale dovevo sostenere il mio ultimo esame. “Deve cercarlo, si sarà preso un’auletta per divorare le sue vittime in pace!” Io gli ho sorriso pensando che la mia prossima preda sarà proprio lui, per una posta in palio che sfiora l’inestimabilità, come la Monna o i Girasoli: la mia tesi.
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