Vedere le lacrime sul volto di una donna, che nulla aveva fatto di male per meritarsi i miei toni e le mie parole, prima rinvigorisce e poi annienta la stima che ho di me. Mi fermo un attimo, appena il silenzio mi restituisce una pace dimenticata, e penso. È tutta colpa del mio sorriso che da un anno a questa parte non è più solo un sorriso o un bel sorriso.
Adesso vuole di più: camuffare i propositi materiali che tirano gli angoli della bocca e fanno emergere l’energia di conquista. Mi fa paura perché è riconoscibile come il peggiore dei miei mali e la più pericolosa delle armi. E ce l’ho io, fra le mani, a illuminarmi il viso che dimostra fiero i segni di un grande dolore divenuto esperienza. Temo il mio sorriso che taglia il cuore in due come una sega elettrica, che attraversa il cuore e non si ferma davanti a niente come un proiettile, che schiaccia il cuore come un pesante sasso lasciato andare da una mano arrabbiata e stanca di comportarsi bene. E quindi mi comporto male. Male come mi insegnano tutti i giorni coloro che hanno aiutato il mio sorriso a nutrirsi nell’ombra e crescere indisturbato.
Adesso provaci a parlare di me. Provaci a infilare il mio nome in una battuta sgradevole e sorridendo infilerò un chiodo nella carne, centrando il visibile bersaglio rosso al centro della tua fronte. Con la forza delle mani lo spingerò in profondità finché, a un certo punto, smetterai di parlare, perché non si può durare a lungo se un chiodo ti attraversa la testa, e io non avrò sprecato il fiato per neanche una parola.
In questo preciso momento smetto di domandarmi come hai potuto e come puoi. Un interrogativo che mi ha fatto compagnia un anno e più finché ho dimenticato la forza di un sogno spento da un candido fiocco di neve. Ne è bastata una manciata a farmi sentire più fragile di un gatto inzuppato. I miei occhi adesso non piangono più, nonostante qualcosa cambi posto e destabilizzi l’equilibrio ogni volta che t’incontro. Prima erano colonne portanti, poi mattoni, adesso pezzi di cemento rimasti incollati che non sono mai serviti a niente. Ben venga che si stacchino e cadano per strada dove l’acqua di mille piogge li avvolge e li trascina in rivoli verso la fogna più vicina. Il giusto posto per ospitare tutto quello che appartiene a te e non più a me che non sono mai appartenuto a te. Il chiodo è il mio sorriso che non cambia mentre tu, davanti ai miei occhi lucidi di martini vodka, oltraggi il bel ricordo del passato.
Avvicinati adesso e vediamo chi vince. Mi dispiace soltanto per chi non c’entra niente e per sbaglio, non volendo, ferisco giornalmente.
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