Quando vedo lampeggiare un numero con prefisso metropolitano vengo attraversato da un brivido eccitato all’idea di chi potrebbe essere, e non serve che vi specifichi che (quasi) mai è. Mi succede con lo 06, ma più con lo 02, ché Milano, editorialmente parlando, ha quel certo non so che. Terrò sempre a mente il rumore del balzo che ha fatto il cuore quando la signorina al telefono si è qualificata così: Sono Francesca di Feltrinelli. Vorremmo incontrarla. Erano i giorni del terremoto, e io non avevo la minima idea di dove avrei passato il resto della mia vita, né di come: se a scrivere ancora, o alla ricerca di un’attività che mi garantisse sicurezze. Quella che sarebbe dovuta essere la mia casa editrice, un paio di settimane prima dell’uscita di Supermarket24 (per fortuna non dopo), decide di chiudere i battenti, perché in Italia non si legge, perché le cose non andavano come sperato e altre motivazioni simili per niente originali. Di colpo la botta di non ritrovarsi una destinazione né un punto di partenza, dopo il terremoto, né più un editore, dopo aver lavorato a Supermarket24 per 2 anni. Pensate al Ciak si gira! innescato dalla parola Feltrinelli nella mia testa. La favola del ragazzo, pescato dal gancio in mezzo al cielo direttamente fra le macerie che, dopo anni e anni di fatica, porte sbattute in faccia (questa è l’espressione più abusata nel settore degli aspiranti qualcuno), riceve una telefonata dalla Feltrinelli, che lo pubblica e gli fa vendere 24 milioni di copie. La mente genera le immagini di cui ha bisogno; se non può viverle attraverso le esperienze, lo fa attraverso l’immaginazione. Quante cose si possono pensare in pochi istanti al telefono prima di rispondere: Va bene, con piacere! E sentirsi poi raffreddare tutti gli entusiasmi così: La chiamo dalla sede di Milano, ufficio del personale, per il curriculum che ha lasciato alla libreria Feltrinelli International in via Cavour a Firenze. L’avevo lasciato nel mio camminare, convinto che cambiare strada fosse non dico facile, ma possibile, in una città che racchiudeva tutti i miei desideri. Conservavo una speranza nella disperazione. Al primo colloquio ne è seguito un secondo, e poi la proposta: un part-time alla Feltrinelli che avrebbero dovuto aprire di lì a qualche mese a Prato. Io mi sono fatto facili conti e ho dedotto che con un part-time non ce l’avrei fatta, e l’ho detto al signore con la cravatta azzurra. Come se la vita procedesse sull’unico binario di logiche materiali, calcoli di quanto serve a fare cosa. Quando ho capito che avevo appena sputato su un sogno avrei voluto riparlare con lui, che al colloquio continuava a domandarmi: E’ certo di voler lasciare questa possibilità? Non riuscivo a oltrepassare il limite che vedevo in quei pochi soldi mensili, per tuffarmi finalmente in un lavoro bellissimo, per circondarmi di libri da mattina a sera, a un quarto d’ora di treno dai miei migliori amici. L’impatto con la consapevolezza corrisponde al momento del secondo errore, ma di questo non me ne faccio una gran colpa. Avevo perso tutti i numeri e, al posto di fare 200 telefonate pur di ripropormi, mi sono convinto che, quando il treno passa, è passato per sempre. La visione destinale, che ha fatto da sfondo a tutte le decisioni prese nei miei primi trent’anni, era riuscita a condizionare pure quella. Come se ogni passo andasse per conto suo e non mio, tanto poi si arriva lì, comunque. Non è vero. Non si arriva da nessuna parte se non vuoi andarci veramente e, se non dimostri di volerci arrivare, devi sapere che non correrai il rischio di perdere nulla, certo, ma neppure di guadagnare felicità. Io non ho corso il rischio, non ho perso nulla di questa immobilità paludosa, e non ho guadagnato un solo istante di felicità. Quel che di buono è accaduto è che questi anni hanno cambiato le mie credenze. Faccio Sì-Sì col capo mentre lo scrivo. Hanno ridato centralità alla volontà, alla fatica, ai meriti, all’insistenza, togliendola al potere delle casualità, delle coincidenze, della buona sorte come unica fautrice di destini stellari. Credo di più nella salita di uno scalino alla volta, e non di 5 in un solo balzo. Credo nelle pause fra una rampa e l’altra, e credo sia utile anche tornare indietro qualche volta, per andare avanti poi. Continuo a pentirmi di quella decisione, che è un rimorso e non un rimpianto, come tutte le scelte sbagliate, al contrario delle non-scelte. Però ora ho un bagaglio arricchito da una credenza popolare sottratta: il coraggio dell’inesistenza del destino.
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