Appena due settimane fa, con una circolare firmata dal vice capo del dipartimento ministeriale, Bernardo De Bernardinis, era stata abolita, nelle tendopoli, la somministrazione di caffé, cioccolata e vino. Poco prima, anche le manifestazioni interne ai campi, promosse dalla popolazione, erano state bandite. “Occorre non turbare la quiete degli ospiti” era stato spiegato dagli uffici della Dicomac (il centro operativo della Protezione Civile). Ora anche il volantinaggio è severamente vietato. L’aria che si respira è quella da pieno conflitto mondiale. Le forze dell’ordine sono diventate i veri padroni della città e alla gente non è concesso neanche chiacchierare in pace che d’improvviso arriva uno stronzo qualunque in divisa che deve perlustrare la tenda, perché non si sa mai che una cellula terroristica di Al Qaeda stia covando sotto la brandina in attesa di sferrare l’attacco a Obama l’8 luglio direttamente all’atterraggio.
In questi giorni sono a Firenze, domani o dopo domani torno a L’Aquila. È un momento che oscillo fra le due città come un pendolo che saprebbe quale estremo scegliere, ma per ora è costretto a tornare indietro e poi di nuovo avanti, in quel movimento che distrugge per l’allontanamento e un attimo dopo consola per il ritrovato cielo. Vorrei fare qualche telefonata e discutere per ore, ma tutte le novità della vita degli altri si scontrano con le risposte che aspetto dalla mia e annullano l’urgenza facendomi sentire eternamente sospeso, in attesa, per quanto altro tempo ancora non è dato sapere. Per questo non chiamo. Non saprei che raccontare e chiedere del nuovo altrui fa piacere, mica no, ma ha su di me un effetto seppur leggero comunque distruttivo, quindi da evitare. Quella del pendolo è una condizione a cui mi sto abituando e che non mi dispiace. La proteggo, la mia vita precaria, e mi spaventano le certezze come non mai, ora. Fuggo alla parola futuro. Si ferma il respiro e un blocco d’aria si condensa sulla bocca dello stomaco e mi paralizza. Sono molto cambiato. La stabilità era un sogno da piccolo. Piccolo nell’età si può esserlo anche a vent’anni. Non che desideri restare vittima di una vita precaria, però, se mi fermo, scende la nebbia.
Ieri avevo un mal di testa che mi ha ricordato per tutto il giorno che bere così è deleterio e la sera prima c’avevo dato giù di brutto, a partire dal Rum e Cola fatto in casa che di Coca Cola ce n’era giusto un’ombra. Eppure mi sono spremuto il cervello a tal punto che ho rischiato che venisse fuori davvero qualche strano liquame tipo fontanella. Io lo vedrei sul verdino. Ho scritto un articolo importante – se lo pubblicano ve lo dico che lo trovate in tutte le edicole – e pure due interviste. Ieri sera poi ho riso tantissimo. Sono spuntate fotografie di qualche anno fa. Siamo stati fino a tarda ora a commentarle, io Luca e Niccolò. A riderci sopra. A ricordare i miei bei capelli andati. La puzza di patatine fritte che mi portavo dietro alla laurea di Luca, perché avevo fatto una corsa pazzesca dal Mc Donald’s dove lavoravo, per non perdermi neanche un secondo di un momento tanto importante. La maglia nera con la scritta USA bianca, che ancora metto per uscire. Ho riso così tanto che d’un tratto un sollievo inatteso mi ha avvolto. Il sollievo di essermi sempre sbagliato nella vita, tranne che in una cosa, che fa da fondamenta al mio palazzo delle rivincite in corso. L’amicizia.
Dio che bella che è l’amicizia!
Il computer brucia le gambe e fuori ci sono 35 gradi che si appiccicano sui vestiti. Stasera festa. A mezzanotte Niccolò compirà 23 anni e noi festeggiamo dal Re della goduria, Pizzaman.
Telefonate al vostro migliore amico oggi. Ditegli che gli volete bene.
Saluti amicosi.
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