Venerdì c’è mancato poco che la mia carriera di giovan(issimo) scrittore andasse a farsi fot… ehm benedire.
Antefatto. Tempo addietro riflettevo con un’amica sullo stato in cui versa L’Aquila. Non su ricostruzioni, giochi di potere, distruzione sotto gli occhi, non-impegno, non-lavoro, non-tutto (bla bla bla e pure bla), che di questioni così ne abbiamo piene pelle e palle. Per pelle intendo proprio lo strato più superficiale dei corpi umani aquilani, i cui pori non chiacchierano d’altro da due anni e tre mesi, intervallando con previsioni sull’intensità dell’ultima scossa (per palle è chiaro cosa intendo). Parlavamo della nostra vita di sognatori, di un futuro diverso dal presente, possibilmente migliore. Nostra cioè mia, tua e sua. Nostra di gruppo d’amici, aquilani o no c’entra poco. Sognare quello che si ha, trasformare le piccole cose quotidiane nei propri sogni… certo, come no! Cazzate facili a dirsi e impossibili da farsi. Saltiamo tutti i passaggi da psicodramma depressivo parolisico pre-omicidio (neologismo riferito a quell’eroe acutissimo che è Salvatore Parolisi, a cui io consegnerei una laurea honoris causa in Scienze dell’Investigazione). E diciamo che per sentirci anche noi aquilani, giovani ragazzi comuni per una sera (i trent’anni da poco sopraggiunti aumentano esponenzialmente le occorrenze del termine “giovane” riferite a me medesimo da me medesimo. Insicurezza? Shock? Giovane lo sono ancora, vero?!) dobbiamo andar via di qui e viverci una notte da leoni altrove. Direzione Café Les Paillotes – Pescara.
Fatto. Il calòr, unito alla guida a singulti della Papi, che precipita in picchiata dalla quinta alla prima e poi manda i motori della sua Ka azzurra di Hello Kitty avanti tutta, agiva sulla mia serenità vacillante trasformandosi in una forma di malessere ansiogeno. Se lo manifesto, la mia amica prima mi dice che sono pesante e poi parte alla carica con l’elenco meticoloso di quei due o tre (mila) episodi in cui ho dimostrato di non fare proprio Alonso di cognome.
“Parli proprio tu che hai fatto inversione in autostrada, oppure vogliamo dire di quando hai sfondato la saracinesca… per non parlare di quella volta in cui sei salito sul marciapiede e hai quasi investito una signora con le buste della spesa.”
Devo difendermi: “E tu allora, che hai tamponato la tua migliore amica e hai cacciato dal Mc Donald’s una donna moribonda che chiedeva come ultimo desiderio solo di andare al bagno (a fare la cacca)?” (Un giorno questa ve la racconterò.)
Così mi sono rintanato in un sofferente silenzio, ho appoggiato la mano destra sul bordo del finestrino socchiuso infilando le dita a catturare aria per deviarne pochi soffi all’interno, sul viso, in un modo qualunque nei polmoni.
In quel preciso momento Papi ha portato a compimento un gesto di una violenza indicibile. Dice di non averlo fatto apposta, ci mancherebbe.
“Quello spiraglio mi dava fastidio e allora ho chiuso il finestrino!” Con le mie falangi in mezzo. “Apri, apri, apriiii!” urlavo e lei non è stata neanche così tempestiva. Una scena terrificante.
Quando ha dedotto che stavo bene, che solo per stavolta non l’avrei denunciata, ha cominciato a ridere perdendo il controllo di sé e del veicolo. Un animale coraggioso ha scelto proprio quell’istante per attraversare la carreggiata ed è stato miracolato da Papi che, col senno di poi, si è convinta fosse un pipistrello (che corre a quattro zampe? Va be’…).
Lunedì mattina mi sono fatto accompagnare da Madre e le ho fatto investire tutti i suoi risparmi di una vita in un’assicurazione milionaria sulle mie (potenzialmente) preziosissime mani. Chi è che si fa avanti per troncarmi un paio di dita con una mannaia fornita dal sottoscritto? Avrò la certezza di campare di rendita e di riempire di soddisfazioni Madre, per un figlio che alla faccia della precarietà, del tasso di disoccupazione in aumento e del prezzo della benzina degno di uno scintillante The Beers (con l’unica differenza che la mia Matiz si ferma dopo cinque chilometri, altro che per sempre) potrà dire di avercela fatta a costruirsi un futuro (senza dita).
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