Eravamo a cena fuori e uno dei ragazzi ha individuato al tavolo di fronte al nostro Ida Peritore. Comprendo bene l’espressione sconcertata che starà dipingendo i vostri volti, perché suppongo identica a quella stampata sul mio e che m’ha fatto proferire a gran voce: “Ida chi?”. Costei è una giornalista del TG1 dai capelli di un biondo volutamente posticcio – non si spiega un colore del genere se non con una ben precisa e consapevole scelta di portarlo – che si scofanava la sua pizza alternando movimenti poco educati delle mascelle che trituravano la pasta e la mozzarella e i funghi a bocca aperta, a sputacchiamenti sul suo e su l’altrui piatto, a espressioni del volto scocciate e un po’ grezze, devo dire. Io, che non ho mai saputo della sua esistenza, ovviamente mi dissocio dalla certezza che fosse realmente lei, quindi non si sprecasse neanche a denunciarmi perché, brutta com’è, casca male. Mentre la osservavo ghiotto di nuovi spunti per la Stanza mi giunge una telefonata. È Madre.
“Matte’ hanno dato l’agibilità a casa nostra.” “Ah, e quando pensi di tornarci?” “A L’Aquila ci sono già tornata, ma dormo in una tenda.” “Appena il sindaco darà il via libera potrai tornare in casa.” “Sì, in quella che farò costruire.” “Mamma, cosa stai dicendo?” “Sarà una casetta di legno fatta bene.” “Fatta bene dove?” “In giardino, col basamento in cemento, mica una di quelle che se ne volano!” “Mamma, ma tu una casa già ce l’hai.” “Sì, rientraci tu!” “Ha resistito a un terremoto che ha ucciso 300 persone!” “Eh appunto, io non voglio essere la 301esima e quindi vivrò nella casetta di legno finché non finisce tutto.” “E quand’è che sarà finito tutto?” “Dopo l’estate, ma non una casetta che se ne vola.” “Sì, ho capito, una fatta bene. Ma costano!” “Con 5 o 6mila euro ce la facciamo.” “Tu stai dicendo che farai costruire una baita in giardino e vivrai lì con la villa dietro?” “Sì, bravissimo!” “Ne hai parlato con papà, zia… con uno psichiatra?” “Sì, sono tutti d’accordo.” “Pure lo psichiatra?” “Sì!” “Mamma, spero ti passerà prima che sia troppo tardi.”
Io a L’Aquila pensavo di tornarci alla fine di questa settimana. Ho bisogno di riabbracciare qualcuno, prendere un panino assieme, andare al mare, magari. Quando sono andato via ho guardato tutto, senza vedere abbastanza. È passato quasi un mese e non so cosa mi aspetta. La distruzione dei luoghi mi fa paura. Nella testa si alternano le immagini di una serata insieme, o di un pianto davanti a un chiesa che ora non c’è più. Sarà difficile l’impatto. È come se quei 20 secondi avessero abbattuto assieme alle costruzioni tutti i ricordi che conservavano tra le loro pareti, porose come spugna. Spero che non mi ritroverò a riscontrare quest’oblio. Che la città nuova, che in un tempo secondo me non troppo lontano sarà la città dei giovani, dei bambini che in questi giorni giocano nelle tendopoli, di quelli che devono ancora nascere, non spenga i ricordi di un passato glorioso, antico. Che la mia città arrivi anche nel cuore dei giovanissimi attraverso i racconti e le fotografie conservate negli album di famiglia, che non possono sapere quanta vita è andata giù e sarà lentamente portata via, perché ora sono macerie e ingombrano.
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