La lista dei desideri o, come va di moda chiamarla oggi, wishlist, sia che si decida di renderla pubblica su un blog o sul frigorifero della cucina, sia che la si aggiorni intimamente, si evolve soprattutto attraverso le esperienze. Quella di Madre è stata resettata e riscritta da una notte indimenticabile, che non sarebbe neanche giusto dimenticare, se fosse possibile.
“Voglio una casetta di legno in giardino, almeno dormo tranquilla, anzi dormo, ché in questa casa non chiudo occhio da una settimana.”
Un desiderio che è un bisogno. Questa casa, come se la disprezzasse, invece la temeva soltanto. D’altronde non può che amarla, dopo tutti i sacrifici fatti per acquistarla, il sangue di un padre che costruisce il futuro delle proprie figlie: Madre e le sue sorelle.
Le notti dopo il terremoto, dormire in casa non era sicuro e non si poteva. Per mesi siamo stati costretti, come tutti gli aquilani rimasti in zona, a dormire nella tendopoli. Ne hanno allestite di grandi e di più modeste, comunque tutte affollatissime. La tendopoli è una realtà a sé; seppur indispensabile, una brutta realtà. Se a qualcuno fosse venuta la sadica idea di piazzare telecamere nascoste, adesso staremmo parlando del più grande successo televisivo di tutti i tempi. Una sorta di Grande Fratello nel quale la violenza verbale non è solo un pretesto per far parlare di sé, ma un’esplosione inarrestabile, seguita a ore, giorni di autocontrollo indotto dalla propria dignità di uomini, che osservano e contano quello che hanno perso: più o meno tutto. Il terremoto dice: “Banco e carta!”, pesca la Matta e fa 7 e mezzo. Il banco era casa tua, la tua città, la tua vita che non c’è più, che quindi non puoi riprenderti.
Nella tendopoli si respira aria di prigionia, si ha la sensazione di essere stati catturati e messi in un grande recinto disseminato di cucce, a convivere con troppe specie di animali pericolosi, facendo appello solo al proprio equilibrio sul filo del rasoio. Si può litigare in modo furibondo pure per una presa elettrica – furibondo vuol dire arrivare alle mani – o per il baccano di un bimbo che non ti permette di riposare, su una delle 4 o 6 lettighe all’interno della tenda. Sulle altre dormono estranei, vicino a te, su ogni lato. Non li vuoi conoscere, non ci vuoi parlare; non che tu non sia un essere socievole, ma ti senti derubato, in qualche caso finito, incapace persino di una stretta di mano. Poi la vita dà l’ennesima dimostrazione di quanto sia sempre così facile per lei sovrastare morte, distruzione e silenzio. Senza farci caso, rinasce un inaspettato sorriso proprio dalle strette di mano, davanti a una grigliata di arrosticini che buoni come li facciamo noi nessuno al mondo, insieme a sconosciuti che all’improvviso son più che amici. Ti importa come stanno, come hanno passato la notte, ti metti in porta, fra due birilli della protezione civile, mentre i loro bambini cercano di farti gol.
La situazione si è normalizzata – mi fa sorridere l’uso del termine per indicare un momento della mia vita che di normale non aveva neppure il bagno: una scatola rossa con un cuore adesivo sulla porta, dalla quale passavano centinaia di persone al giorno. A quel punto gli aquilani sono diventati ospiti sgraditi pure nelle tendopoli. Bisognava rientrare nelle case, chi ce le aveva, per forza. Non importa la paura della notte, non importa l’imprevedibilità e i rischi così a ridosso dell’evento più catastrofico della nostra storia di città. In tendopoli non si poteva più stare, cacciati direi.
Io sono andato a Firenze, scappato direi, perché bisogna essere onesti con le parole. C’erano 2 cuori grandi pronti a ospitarmi, gli amici ti salvano la vita. Un lavoro non ce l’avevo più, per il momento. Da grande egoista ho deciso di aggrapparmi all’illusione di lasciare la mia disperazione a L’Aquila. I miei genitori sono tornati a dormire in casa, ma Madre proprio non ce la faceva. Nelle telefonate la sentivo sempre più stanca e, attraverso il suo tono di voce rallentato, vedevo la rassegnazione e le occhiaie. Finché non ha deciso per la casetta, che era sì la soluzione al suo sonno, ma anche un modo per ricostruire qualcosa.
Ricordo le prese in giro:
– Una casetta di legno… dai, ormai il peggio è passato.
– Una casetta di legno è una spesa inutile.
– Ci è crollata una casa, ma abbiamo questa. È assurdo ritrovarsi una casa in buono stato e non dormirci.
– Dobbiamo vincere la paura, nel rispetto di chi una casa non ce l’ha più.
– Che dobbiamo farci con una casetta di legno?
Madre se n’è fregata, quella casetta l’ha voluta a tutti i costi. Nient’altro che 3 stanzette da letto, perché il terremoto arriva di notte. Senza servizi, senza gas. Solo una stufetta che la scalda in un attimo, tant’è piccola.
I miei genitori ci hanno dormito per più di un anno. Io sono tornato a L’Aquila e in casa quasi subito. Quando sono rientrati pure loro, la casetta è diventata una piccola baita nella quale ospitare gli amici a Capodanno o quando, da lontano, vengono a trovarmi. Da qualche settimana sono ricominciate le scosse, poche, costanti, che tolgono il fiato. Siamo tornati in casetta. Non che debba succedere qualcosa, per carità, però dormiamo meglio, più vicini. Pure se all’improvviso fa freddo, è un bel freddo. Stanotte una nebbia densa ricopriva tutto. La mia è una zona molto umida. Mi sono fermato sulla porta di casa, nel silenzio e nel freddo. In pigiama, col giaccone e le pantofole, ho guardato in direzione della casetta. Mi son sentito sollevato all’idea di trovarla, fra la nebbia. Una sicurezza vicina, che ho raggiunto in pochi passi.
Devo ringraziare Madre per aver insistito così tanto sulle nostre riserve, che lasciavano intravedere una forza solamente apparente. Devo ringraziarla per la sua idea di famiglia, che non è facile spiegare, ma è facilissimo imparare vivendo con lei.
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