Immerso nel candore minimalissimo della modalità fullscreen di WordPress, che mi ha fatto scoprire il mio web-designer, grafico, ideatore delle copertine dei miei libri, genio tuttofare e fratello del più celebre Mario, Super Pino, vi racconto della recente gita forzata nel ridente ospedale San Salvatore dell’Aquila. Solite analisi annuali, che io sono per il prevenire è meglio che curare, e visita dermatologica per una roba secca che mi è spuntata sull’indice e sul medio della sinistra mano, rimandate 18 volte causa virus intestinale prima, causa neve poi, e cause varie mentre, tutte ricollocabili all’ansia che mi sale alla sola idea di mettermi in coda per il prelievo. L’accettazione sta sul palco di un modesto teatro, con davanti centinaia di seggioline di plastica bianca occupate da signore e signori che invecchiano nell’attesa. Arrivo che sono appena passate le 8 e un quarto e c’è già il pienone. Basta mettersi in coda, a capirlo dove comincia! Mi sento toccare la spalla. Una donna mi dice: Ehi, devi prendere il numero! Non volevo passare avanti a nessuno. Dove si prende il numero? I numeri stanno sopra al termosifone là in fondo, ribatte prima di fare dietro-front verso il suo posto in platea. Procedo immaginando di trovare, fissata da qualche parte, una macchinetta elettronica di quelle delle Poste delle città che non siano appartenenti a un Paese sottosviluppato. Quando la signora diceva sopra al termosifone voleva dire proprio sopra alla ghisa imbollentita su cui giace un rotolo di numeri senza nemmeno il supporto rosso che sta all’angolo a destra del banco nei supermercati, altro che macchinetta che premi e fa tidì mentre esce il bigletto. 228 e il piccolo monitor segna 30. 2 ore dopo è il mio momento, prima o poi arriva per tutti nella vita. Di ore il corpo ne percepisce circa 105mila, equivalenti a 4375 giorni cioè 11 anni e 9 mesi. Lo dimostrano le rughe sotto, sopra, a destra e a sinistra dei mei espressivi occhi nocciola, la barba fino all’ombelico, i capelli che sono diventati la metà della metà imbiancandosi ulteriormente non per la neve e non per la forfora, che combatto doccia dopo doccia, e la lieve zoppia che mi accompagna fino alla signorina dietro lo sportello di vetro. Bisognerebbe sempre trovare il modo migliore per dire qualcosa a qualcuno, soprattutto se quel qualcosa è domandare a chi consegnare l’ampollina dorata. Io l’ho fatto così: Scusi, l’urina la do direttamente a lei? Mi viene in mente la pratica sessuale di fare la pipì addosso al partner, in questo caso lei, e il risultato è una risata che non controllo. Ride pure lei e poi mi dice: La sorprendo con effetti speciali, di fiale d’urina per le sue analisi ne occorrono 2! Il panico nei miei occhi le fa aggiungere: Ne prenda pure una nel cestello, il bagno sta vicino l’entrata. Io lo faccio, ma non sono in me. Procedo verso la porticina con la fiala vuota in mano e produco un unico pensiero: ODDIO! Cioè, riempire una fiala di urina non è mica una cosa che si fa così su 2 piedi, voglio dire. Ci sono un sacco di aspetti psicologico/pratici da tener presente: sangue freddo, mira, precisione. Purtroppo l’attesa biblica del mio turno e la stanchezza già di prima mattina fanno sì che manchino 2 dei 3 sopracitati, e non sto parlando del sangue freddo.
Superata la fase preliminare tocca aspettare per il prelievo. Pappalardo urlerebbe: Ricominciamoooooo! Scatta il mio numero, mi alzo gaudente e vengo interrotto dalla voce dell’infermiera che si affaccia e, rivolta a un ragazzo, esclama: Dai Marco vieni! Io resto in piedi fuori la porta, col mio numeretto fra le mani uguale a quello lampeggiante, solo che io sono fuori e Marco – chi è Marco? – senza numero sta dentro. Guardo all’interno con fare interrogativo e minaccioso. La donnona si risente del mio sguardo: Solo un attimo di pazienza e poi tocca a lei. Io dovrei avere un attimo di pazienza mentre tu fai le analisi a uno che, per il solo fatto di conoscerti, salta tutta la fila? Come si può chiedere un attimo di pazienza a uno che aspetta attimo dopo attimo da più di 3 ore? Ora entro e le ficco la sua siringa nel culo, penso. Poi cambio idea in funzione del fatto che mettersi a far polemica con chi un minuto dopo dovrà centrare la vena sul tuo braccio e tirar su 4 fiale di sangue non è proprio consigliabile, se ci tieni a tornare a casa, così sopporto l’ingiustizia in un omertoso silenzio.
Dopo 45 anni luce sono finalmente faccia a faccia col dermatologo che liquida la mia visita, pagata 33 euro di ticket, con queste parole: Si tratta di un granuloma. Da quel momento non c’ho capito più niente e gli ho chiesto: Morirò, dottore? No, ha risposto e m’è parso pure dispiaciuto. Che gli avrò fatto di male, chissà. La sua pelle ha reagito a qualcosa di impossibile da identificare, probabilmente un’infezione. Io fossi in lei non ci farei niente. Ma se non ci faccio niente non se ne va, e io voglio che se ne vada, dottore! No, ma tanto non se ne va comunque. Provi questo unguento. Se entro una decina di giorni non nota effetti positivi lasci perdere. Buona giornata! Un attimo solo, mi scusi, vorrei anche farle vedere un neo. Per il neo c’è la visita dei nei. Ah, non sapevo bisognasse richiedere una visita specifica, comunque se potesse darci solo un’occhiata. Qualche giorno fa mi sono tagliato con la lametta e ho perso un po’ di sangue proprio in corrispondenza del neo. Sono preoccupato, la prego! L’uomo, colpito da tale umana disperazione, si alza dalla sua poltrona di pelle nera, si avvicina, sbatte un paio di volte le palpebre e conclude: Fatto, arrivederci!
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