A L’Aquila fa più caldo che a Firenze, com’è possibile? Dov’è finita la fresca brezza della montagna, quel filino di venticello che ti accompagna e non ti fa sgocciolare. Capisco ad agosto, ma non siamo neanche a giugno e qua manca l’aria. Fortuna che all’improvviso si attivano scrosci d’acqua dal cielo e volente (quasi mai) o nolente ti rinfreschi. Non è certo soltanto questione di clima. L’atmosfera è surreale. Il silenzio per le strade non viene rotto neanche dalle poche automobili che sembrano rispettarlo, risparmiandosi rombi, boati, accelerazioni brusche, pressioni furibonde sul clacson. Ieri ho fatto un giro per i luoghi raggiungibili. Mi sono fermato sotto il palazzo dove ho vissuto per ventidue anni. Sembra che qualcuno abbia staccato la linguetta di sicurezza di una bomba e l’abbia lanciata al suo interno da una delle finestre. Esploso è il termine che più si avvicina alle condizioni della mia ex casa, quella che tenevamo in affitto e che è stata valutata E nella scala dei danni, che vuol dire che quasi sicuramente andrà buttata giù. Sono sceso dalla macchina e ho camminato, lentamente, attorno al palazzo. Squarci grandi come intere pareti da cui si vedeva l’interno, l’arredamento, il barattolo di nutella sul tavolo. La scala si è staccata e io abitavo al secondo piano. Ho pensato che se non mi fossi trasferito in campagna e quella notte fossi stato lì, ad assistere allo sgretolamento del palazzo, nel tentativo di uscire fuori da quella tomba di mattoni, quello che mi sarei portato dentro sarebbe stato terrore di vivere, poi, qualunque cosa. Ho pensato alle ragazze che erano in casa, ai miei cugini, alla signora che abitava l’appartamentino ricavato dal garage della vicina sulla cui abitabilità ci sarebbe molto da discutere, e che hanno aiutato a liberarsi dalla finestrella mentre le pareti si accartocciavano. Ho pensato all’idea di sicuro radicata anche grazie alle esperienze, che in me coincideva con quella di casa. È una casa che immagino, quando penso a un luogo dove non mi possa accadere nulla, dove la pioggia e il vento non possano seguirmi, dove c’è un divano su cui riposare, protetto da pareti di mattoni e cemento. Trenta secondi di un fenomeno ancora troppo misterioso per essere previsto, dominato poi non ne parliamo, bastano a buttarla giù, quella sicurezza.
Quando la notte apro la porta bianca del camper, Iker mi guarda come se fossi pazzo. La chiudo e lui aspetta che esca, giracchiando intorno. Gli par strano che io abbia così tanto da fare in quel gigantesco cassonetto a motore. Poi si stanca e va a dormire. Pure la sua cuccia è terremotata. Abbiamo dovuto rinforzarla con nuove assi, però ha retto. Non si dorme male nel camper, se non fosse per il sole che riscalda la plastica e penetra all’interno come un vapore che a un certo punto mi sveglia. Mezzo giardino è occupato dal basamento in cemento su cui nei prossimi giorni costruiranno la casetta di legno voluta da mia madre, che ha deciso di passare lì le notti future finché non sarà certa che sarà finito tutto.
Io qua non ci sto bene più. Sono tornato anche per trovare la risposta al dubbio di aver preso la strada sbagliata, che esiste solo perché è giusto averceli sempre, i dubbi, che la decisione sia stata solo il frutto della fretta e della paura. Ho capito che non si è trattato di una fuga, ma di un’esigenza che come essere umano sento e non posso ignorare: quella di cercare una possibilità altrove da questa esasperante immobilità che martella.
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