Oggi ero dell’umore giusto, perciò l’ho fatto; o comunque c’ho riprovato.
Lo sono quasi sempre per scrivere, sempre sempre sempre (tre “sempre”) per leggere, abbastanza mai (quindi nessun “sempre”) per dedicarmi allo studio. Oggi lo ero. Sì, oggi mi andava di autoinfliggermi l’umiliazione di fissare per ore lo schermo del computer fino al solito punto di non ritorno, quando non mi ricordo più come mi chiamo, dove mi trovo e che ci faccio qui.
Il progetto della tesi è molto complicato per me. Quel “per me” conta, per questo è in corsivo. Uno studente di Informatica che arriva alla tesi dopo un percorso mediamente lineare troverebbe il mio progetto comunque complicato da realizzare (quindi senza “molto”), ma se la caverebbe con pochi graffi. Io arrivo alla tesi dopo aver percorso migliaia di chilometri in più, inutili e costati anni persi. Possiamo discutere se siano stati o no davvero anni buttati. Io non lo credo. Avrei potuto sfruttarli meglio, questo sì. Persi sicuramente, visto che se ne sono andati nello scarico del cesso di un fast-food dove tutto è unto e puzzolente, pure le persone, e dove un “grazie” mica me lo ricordo.
Col senno di poi gli “avrei potuto” della vita si moltiplicano. Certo non posso rimproverarmi per non aver smesso di alimentare il sogno, soprattutto alla luce del fatto che è ancora qua, sul mio tavolo, e non dentro a un cassetto. Rinnovato e più forte di prima.
A Informatica non ci si laurea senza un progetto, e i progetti sono software composti da pagine di righe di codice che, se fossero scritte in caratteri cinesi, ci capirei qualcosa di più. Negli anni ho studiato poco e male, e ora sudo sangue per farmi entrare in testa regole e linguaggi di programmazione che neanche Dan Brown. Non chiedetemi come ho fatto a finire gli esami; non lo so.
Quando si ha un obiettivo davanti, bisognerebbe raccogliere le energie dentro di sè e lasciarle interagire con gli stimoli che arrivano dall’esterno, affinché formino una forza positiva potente che spinge in quella direzione. Invece, dagli ultimi esami alla tesi ho fatto passare altro tempo, troppo. Un buco nero di anni che hanno risucchiato pure le poche abilità che per sola testardaggine ero riuscito a maturare.
Dopo le prime due istruzioni di diecimila, mi rendo conto che neanche alla fine di oggi avrò idea di cosa quel foglio elettronico voglia dirmi. Ma stavolta è diverso. Stavolta posso! L’umore… ci siete?
– Oggi sei dell’umore giusto. Ricordatelo, Matteo! – parlo da solo riassestandomi sulla sedia, poi esclamo: – Vediamo un po’ di capirci qualcosa!
Non chiudo subito la schermata, come faccio sempre dopo un momentino (di ore) di sconforto, no no. Io spazierò nello spazio spaziale! Certo, come no. Col senno di poi, ecco che mi viene da dire: AHAHAH!!!
Mi piaccio quando mi predispongo al successo (che non arriva comunque, sia ben chiaro), pure se ciò che mi aspetta ha dell’impossibile, per me.
E allora muovo il mouse gasatissimo. Eseguo azioni disperate e totalmente a casaccio. Perdo il controllo sul mostro luminoso pur non avendolo mai avuto. Congiungo i palmi delle mani, come mi hanno insegnato le suore alle elementari quando ci si appresta a recitare l’Ave Maria, e imploro il buon Dio di far capitare qualcosa sul monitor. Un lampo, un’immagine chiarificatrice, un clic fortunoso che dissipi la nebbia e mi permetta di procedere di almeno un altro passetto. Niente!
Finora, il fenomeno miracoloso si è verificato solo a Medjugorie e nel salotto di Villa Madre, il giorno che ho capito che stavo sbagliando tutto il database, e ho dovuto ricominciare quasi da capo. Pure se all’indietro, è una delle tante forme del procedere.
La fase successiva alle preghiere è lo sconforto. In me si manifesta con un silenzio perso nel vuoto.
Raggiungo la cucina. Madre è rientrata dopo otto ore di lavoro, dopo quarant’anni di ore di lavoro, per la precisione, e si è messa a fare i piatti. Mi vede scuotere la testa. Non ho un pensiero definito, ma tanti pensieri di disfatta, mentre mastico lentamente i cereali collosi di una barretta Kellogg’s. Mi sento stanco, io che non ho fatto niente. Mi vergogno di sentirmici. Madre chiude l’acqua, si asciuga le mani. Si volta e mi dice:
– Lo sai quanti anni c’ha messo tuo nonno per diventare un bravo costruttore?
Non ho capito se si riferiva alla laurea, o alla scrittura che non le è mai andata giù. Ma aveva a che fare col persistere. Torno in camera con un mezzo sorriso, che poi si fa pieno.
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L’immagine ritrae il gonfiatore di palloncini verdi per i comizi politici della Lega. Uno dei tanti laureati italiani che, per sbarcare il lunario, s’è dovuto inventare un mestiere. L’ho prelevata da Panorama.it senza chiedere il permesso.