• Vittorioso per essere appena riuscito a far entrare un pannello di 3 metri per 1,5 in un’automobile dalle dimensioni vistosamente inferiori – quasi quasi ci monto le ruote e viaggio sul pannello, magari è anche più comodo – eccomi a spiegarvi bene di ViewWeb. Tanto perché uno non sa mai quello che succede nella vita, un aperitivo con un amico, nato per consolare la malinconia post-dimissioni, si fa portavoce di una proposta concreta. Così, da qualche settimana, ho iniziato a collaborare con ViewWeb.
    Do una serie di risposte a domande che io stesso, all’inizio, mi sono posto.
    Intanto: Cos’è? ViewWeb è il nuovo prodotto dello studio grafico ACdesign, con sede a Trento. Si tratta di una piattaforma di strumenti molto intuitivi che permettono a chiunque di crearsi un sito internet mobile, personale o della propria attività, senza la necessità di conoscenze informatiche specifiche.
    Procediamo con: Perché mobile? Che vuol dire? Sì, insomma, qual è la differenza fra un sito internet comune, di quelli che tutti i giorni visitiamo dal computer di casa, anche detto sito desktop, e un sito internet mobile, accessibile dai cellulari, smartphone, tablet e tutte queste fantastiche diavolerie di ultima generazione?
    La risposta sta in un’esperienza che di certo avrete fatto tutti: aprire un sito internet comune dal vostro cellulare. Io arrivo quasi sempre al punto di arrendermi e rinunciare all’obiettivo. Rimetto il telefono in tasca e penso: Quando arrivo a casa, lo vedo sul PC. Una volta, per i grandi nervi, ho gettato il telefono nell’erba, che è andato a sbattere sull’unico sassolino del campo, e si è aperto un varco su un angolo dal quale è tuttora possibile ammirare i circuiti interni. Questo perché consultare un sito internet comune da un telefonino è una forzatura fastidiosa, oltre che una botta in testa all’umore. Il telefonino adegua alle sue caratteristiche quello che invece è stato pensato e creato per un dispositivo con caratteristiche diverse, qual è appunto un computer col suo schermo a 15 pollici e il mouse. Mi vengono in mente tutte le volte che ho sbuffato quando col dito ho beccato un link per un altro. Respiro, conto fino a 10 e riparto. Carico la prima pagina, la ridimensiono, la ingrandisco sulla porzione del sito che m’interessa cliccare. Procedo in una semi-apnea, ché sono terrorizzato che possa accadere di nuovo di toccare un pixel per un altro, che poi ho le dita grandi io. Sfioro per sbaglio il pulsante della ricerca e mi si apre la pagina iniziale di Google. NOOO! Ecco perché, quasi sempre, ci rinuncio.
    Un sito internet versione mobile non è un comune sito visualizzato su un telefonino, ma è un sito fatto apposta per il telefonino, la cui struttura è ottimale per essere consultato da un dispositivo mobile, appunto. Ha una grafica semplificata e adattabile alle diverse dimensioni dei dispositivi mobile. I contenuti sono suddivisi in più pagine per evitare di sovraccaricare l’interfaccia con informazioni non pertinenti, sovrabbondanti e spesso indesiderate. Gli utenti del sito hanno un maggior controllo sulla visualizzazione grafica per evitare effetti come, ad esempio, lo scorrimento orizzontale. E’ più intuitivo, leggero, si carica in fretta, e ha delle caratteristiche aggiuntive utilissime. Così, su due piedi, penso all’ottimizzazione di chiamata, per inoltrare la chiamata con un click diretto sul numero di telefono dell’attività commerciale che l’utente ha cercato e trovato in un attimo, in giro per la città col suo cellulare. Poi, se consideriamo che oltre 10 milioni di italiani utilizzano abitualmente il cellulare per navigare, e che, solo nel 2010, oltre 20 milioni di acquisti e transazioni con carta di credito sono stati effettuati direttamente con dispositivi mobile, per un’attività commerciale, ma non solo (me lo sono fatto anch’io con MatteoGrimaldi.com) avere un sito internet versione mobile diventa un biglietto da visita necessario.
    Per maggiori informazioni vi rimando al sito: www.viewweb.it dove trovate anche qualcuno dei nostri siti già realizzati; e al post di ieri con la prima coloratissima newsletter.
    Questa è la pagina facebook di ViewWeb; per ora siamo pochi, ma buoni. Se pensate di essere buoni, cliccate su Mi piace.
    Oltre che spiegarvi un po’, vi invito a venirci a trovare. Perché domani, sabato 13 ottobre, saremo per tutta la giornata al CC L’Aquilone (a L’Aquila) con il nostro stand. Chi può, passi. Questo è l’evento su Facebook. Guardatelo ché ci sono altre info interessanti.
    E poi, visto che ci piace confrontarci con i nostri clienti in modo diretto, scriveteci un’email a web@viewweb.it, o chiamate il numero 0461811049. Se vi trovate in zona L’Aquila o, più in generale, Abruzzo, scrivete pure a me: matteo@viewweb.it o chiamate il numero 3497765493. Ma non fatemi gli scherzetti telefonici ché vi denuncio alla polizia postale.

    Scrivi un commento →: Sabato 13 tutti al Centro Commerciale L’Aquilone!
  • Per la serie: Chiusa una porta si apre… un portone non lo so, comunque un’altra porta…

    Nel prossimo post (domani) vi spiego meglio di che si tratta e perché c’è il mio nome sulla locandina. Intanto visitate il sito e, se volete qualche info direttamente da me medesimo, scrivetemi pure all’email o chiamatemi al numero sul fondo. Evitate le ore notturne però, ché mi trovate in modalità aereo.

    Scrivi un commento →: Nasce ViewWeb, e io con loro
  • Ti sei appena licenziato! Più vacanza di così! Cosa metti questi titoli?! Ma sei pazzo?
    Ehi, ehi, non occorre che gridiate. Vi sento pure da centinaia di chilometri. Vi sento come un sentimento, ecco.  Il maremoto di affetto che si è abbattuto su queste pagine, quando ho scritto della mia decisione di lasciare il lavoro per (in?)giusta causa, mi ha parlato e detto: Guarda un po’ che bello! Fai un sorriso al mondo, invece di frignare! E io così: :’-D con la lacrimuccia.
    Vi ho guardato, e uno per uno vi ho abbracciato. Non ditemi che non vi siete accorti di niente, perché io sono grande, grosso e goffo, tanto che, quando abbraccio, potrei anche assistere all’abbracciato che prima assume un colorito foglio A4 per fotocopie, e poi schiatta fra le mie braccia. Per fortuna mi risulta che siate sopravvissuti tutti, ma non ci metto la mano sul fuoco.
    Sì, mi sono licenziato, ma non mi sto grattando la uallera, anzi guallera. Il mio amico Gennaro, napoletano con tanto di timbro di Denominazione d’Origine Protetta, mi toglierebbe il saluto se mi sentisse pronunciarla così invece che colì. Per dire che ho tolto un’occupazione e ne ho inserite altre 100, che in questo momento non mi vengono in mente. Fatto sta che la sera serro gli occhi che non sono ancora le 23 e la mattina li sgrano poco dopo l’alba, cioè 3 ore prima che suoni la sveglia. E la metto presto la sveglia io, perché mi do l’estrema sepoltura sotto i copertoni già col desiderio del caffelatte caldo coi cereali. Non so a cosa devo tale stravolgimento del mio ciclo biologico. Dal Matteo in modalità super vampiro disco music quando lavoravo: dance, dance, dance fino alle 3 di notte, all’ora et labora, now.
    Ho iniziato la tesi con partenza a razzo. 3, 2, 1… boom. Ho lasciato la mia testa vulcanica lavorare ininterrottamente per giorni e giorni di fusione cerebrale finché luce fu. L’idea che mescoli la brutta, bruttissima programmazione – pur sempre in Informatica devo laurearmi, mica in Scienze del Canottaggio sul Ghiaccio – con la bella, bellissima, passione per le parole finalmente è giunta. Eureka! La lampadina s’è accesa e fare, fare, fare viene facile. Ho buttato giù un’architettura del progetto con tutti quadrati, frecce colorate e scrittine qua e là. L’ho fatta bella (e corretta, visto che l’avevo riempita di rettangoli che non facevano niente e collegamenti incollegabili), grazie all’aiuto di Antonio, il mio informatico custode che mi starà accanto in questi mesi, e che mi aiuterà a non venire risucchiato dal buco nero dei linguaggi di programmazione.
    Ho inviato il progettino al professore che non sentivo da circa un anno e mezzo, di recente, insomma, e ho spento il PC terrorizzato da un aspettato: Si fanculizzi all’istante! e invece mi ha risposto parole incoraggianti. Ritiene il mio progetto interessante, e ritiene pure che sviluppandolo si possa arrivare ad una buona tesi di laurea. Poi aggiunge righe incomprensibili, ma fa niente. Ho letto e riletto la sua email provando sempre la stessa emozione, ma come se fosse la prima volta, però. La felicità particolare che ti danno parole il cui peso lo riconosci, che sottolineano il valore di una tua idea, mischiata all’assurdità di non sapere comunque dove mettere le mani. Ho letto e riletto anche quella che gli avevo mandato io. Quando mi sono imbattuto nella frase: l’idea nasce dall’idea… ho capito di aver bisogno di una vacanza.
    Sì, ma dove? Sono nel periodo vacanze brevi e intense, quindi Italia. Certo, Napoli! Non ci sono mai stato e il desiderio di masticare la Pizza con la p maiuscola sta prendendo il sopravvento, sarà pure per l’ora di pranzo inoltrata e Madre che non accenna a preoccuparsene. Cerco su Google un hotel a Napoli, mi esce questa pagina in cui c’è l’imbarazzo della scelta. Lusso sfrenato, oppure B&B, modalità che più si attiene alla mia attuale condizione di disoccupato anziano? Non lo so, deciderò. Intanto sento già la mozzarella di bufala fumante che mi cola ai lati della bocca. Sì, è mozzarella! Ah-ah. Scusate, è la spensieratezza.

    Scrivi un commento →: Ho bisogno di una vacanza
  • Qualche settimana fa vi avevo accennato ai cambiamenti per sentirmi in vita, inteso come dentro la vita, nel suo pieno fluire. Non è per niente una sensazione scontata.
    Il 2 settembre ho consegnato la mia lettera di dimissioni, e il 22 settembre, cioè sabato scorso, è stato l’ultimo dei 20 giorni di preavviso. Sono stato assunto in data 16 novembre 2007; 4 anni, 10 mesi e 6 giorni di onorato servizio in un fast-food aquilano. Ultimamente mi capita di dire disonorato. E’  un termine un po’ forte, ma ci sta. Per com’è andata a finire, per com’è sembrato a me, almeno. Metto sulla bilancia il piatto carico di ciò che ho dato, sull’altro ci appoggio le ricompense ricevute in questi anni faticosi, incluso l’ultimo inaspettato No. Faccio quello che si fa di solito alla fine di un percorso: il bilancio con la bilancia, che stavolta pende dalla parte di una profonda delusione.
    Qualcuno mi leggerà e, da bravo cane cercatore di tartufi, indicherà ai miei ex-superiori questo articolo provocando rabbia e offesa, come già è capitato. Peccato, perché io davvero non ho quest’intenzione. L’offesa come forma di difesa va per la maggiore quando si è a corto di argomentazioni. Le mie argomentazioni sono le esperienze, il lavoro, le sensazioni che io voglio condividere con voi. Per farlo devo essere sincero, altrimenti che scriverei a fare? E la sincerità presuppone verità che possono ferire, certo meno dei comportamenti. Bisognerebbe stare attenti ai propri comportamenti, se non si vuole ricevere parole di verità taglienti per bocca di una persona ferita. Bisognerebbe stare attenti a non ferire, insomma, prima che a dire: Le tue parole sono cattive.
    A fine agosto ho chiesto un’aspettativa non retribuita per motivi di studio. Un periodo di sette mesi senza lavorare né percepire stipendio, per scrivere la tesi. Mi aspettavo un: Sì, Matteo, naturalmente! col sorriso. Invece non mi è stata concessa. Il perché, nonostante le molteplici spiegazioni chieste e volute riascoltare, io non l’ho capito.
    Come tutti voi saprete, perché son cose che si sanno e, se non si sanno, è facile reperirle in rete o dal proprio sindacato di fiducia, l’aspettativa non retribuita è una sospensione totale del contratto. Totale significa proprio totale, altrimenti non si direbbe totale, ma, che so, parziale. E’ una consapevole rinuncia allo stipendio, ma anche ai contributi, alle ferie e ai permessi che per tutto il periodo dell’aspettativa non vengono maturati. In soldoni, chi si mette in aspettativa non retribuita sa che conserverà esclusivamente il posto di lavoro, nient’altro, e costa all’azienda circa 0 (zero) centesimi. E’ un diritto del lavoratore chiederla, ma resta facoltà dell’azienda accettarla. Facoltà che è più una formalità di solito, non dove lavoravo io.
    Qual è l’unico problema che può creare chi chiede un’aspettativa non retribuita? Be’, tutto sta nella gravità dell’assenza. Faccio un esempio. Mettiamo il caso che io sia l’unico in un’azienda in grado di utilizzare un complicato programma al computer che regola il rilascio di bombe atomiche, e che chieda un’aspettativa non retribuita. Capite bene che non si può fare a meno della mia persona così su due piedi, se non si vuole scatenare una guerra mondiale aerosilurante. In tal caso comprenderei il No, almeno per il tempo necessario a formare un altro dipendente perché possa adempiere alla mia delicatissima mansione senza provocare la fine del mondo. Ma io lavoravo in un fast-food, mica all’Aeronautica Militare, e quello che facevo erano panini e patatine, cioè quello che fanno tutti i dipendenti della medesima catena, mediamente più di 30, eseguendo procedure meccaniche che si apprendono in pochi giorni. La motivazione del problema aziendale che avrebbe creato la mia sostituzione m’è parsa e continua ad apparirmi ridicola. Si tratta di un contesto in cui c’è un continuo uscire ed entrare di risorse umane. Vuoi perché scadono i contratti e molti non vengono rinnovati, vuoi perché qualcuno se ne va, ehm ehm. Insomma, una realtà abituata ad assumere personale nuovo e a formarlo velocemente.
    All’Ispettorato del Lavoro hanno voluto sapere i motivi delle mie dimissioni. La Fornero ci tiene tanto, perciò ha riformato il sistema. Non è più sufficiente una letterina veloce veloce, ma bisogna recarsi all’Ispettorato del Lavoro per convalidare le dimissioni davanti a un addetto, l’ispettore, che vuole e deve accertarsi della reale volontarietà delle stesse. Mi hanno detto che, nel mio specifico caso, considerato l’ambiente di lavoro e le mie mansioni, il rifiuto dell’aspettativa è una chiara presa di posizione nei miei confronti. Hanno detto anche altre cose che eviterei, perché a me le parolacce piace dirle, ma non ripeterle.
    Perciò mi sono licenziato, e oggi ho cominciato la tesi.
    Dovrò fare a meno delle abitudini, cercando di costruire giorno dopo giorno. Sarà un tempo complicato pure perché al cambiamento che ho scelto se n’è sommato un altro che ho subito. Quando si dice: Mi è mancata la terra sotto i piedi. Sì, il mio sostegno. Col senno di poi ho capito cos’è la serenità, a cosa corrisponde in termini di sensazioni fisiche, ora che al posto del cuore ho un enorme buco nero che risucchia anche l’ossigeno e mi fa mancare il respiro. Devo ripartire, e sono già ripartito da qui: le abitudini, tutte, a 0. E dopo lo 0 viene l’1.

    Scrivi un commento →: Disoccupato. Ricomincio da capo nella mia nuova terza vita
  • Si avvicina con passo contrito e testa semichina sul cotto tirato a lucido di Villa Madre.
    – Mi sento così triste, depressa, per il giardino che sta diventando una distesa di fango e merda di cani. Non sono andata neanche a fare la visita che avevo questa mattina. Puoi chiamare il numero verde e rinviarla al primo giorno utile?
    – Certo. Mi dai il foglio con i vari dati?
    – Eccolo qui – risponde col braccio teso, continuando a guardare il pavimento. Io vado in camera, compongo il numero, intanto leggo. E leggo: ECOGRAFIA TRANSVAGINALE.
    – Buon giorno ospedale, dicaaa?!
    Oddio, ha risposto già?! Neanche il tempo di… metabolizzare.
    – Ehm sì, buon giorno! Dovrei rinviare una visita medica.
    – Che visita?
    – Un’ecografia transvaginale.
    – …
    – … …
    Credetemi, mai come in quel lungo silenzio che ha fatto seguito ho desiderato con ardore una morte rapida e indolore.

    Scrivi un commento →: [Madre Trans]
  • Di ritorno dall’incontro con Francesca Bertuzzi, c’ho tutta una friccicheria addosso che mi accingo a riversare su queste pagine. Vi aspettavo al varco, maliziosi porcini che non siete altro. Mi spiace deludervi, ma no, non è l’incontro che pensate voi. Si è trattato di un’unione d’anime e parole attorno a La Paura.
    Ero già stato a Orte per la presentazione di Una Valigia Tutta Sbagliata, ricordate? Quella fu l’occasione prima di rischiare la vita in autostrada, con la spia dell’olio che decise di emettere una rossa luminescenza esattamente a metà del tragitto, sulla Firenze-Napoli, e neanche un autogrill all’orizzonte; e poi di dichiarare tutto il mio amore a questo paesello incantato di 9mila abitanti; a Giuseppe e Stefania, librai che come loro non ne ho ancora beccati, e alla piccola libreria Il Gorilla e l’Alligatore, che quanto mi piace, quanto la vorrei. Attenti ché, in uno dei miei molteplici minuti di instabilità mentale, potrei organizzare una spedizione colpo di stato e conquistarla, cambiare la serratura e, dopo 25 anni, possederla legalmente per usucapione.
    Non conoscevo di persona Francesca, eppure sono bastati pochi minuti di chiacchiere pre-evento perché si instaurasse fin da subito la giusta sintonia. Eravamo tranquilli, come se dovessimo fermarci a un caffè, e parlare del più e del meno, di come ci vanno le cose, dei nostri libri, mica presentare il suo bestseller davanti a tanto pubblico entusiasta. Insomma, è andata benissimo. Ogni risposta mi dava spunto per altre dieci domande. Siamo andati oltre i suoi libri, scavando nei meccanismi dell’editoria. Fino ad Amazon, al self-publishing, tornando poi a Giuditta e Veronica, le protagoniste de La Paura, al legame che si instaura con la piccola Emma, al senso di soffocamento che permea il romanzo e il lettore, fino alle ultime commoventi pagine. Le letture di Giuseppe sono state efficaci e dense di emozioni, sarà stata l’ansia da prestazione per lo spettacolo teatrale del quale sarebbe stato protagonista qualche ora dopo. Avete mai conosciuto un direttore di banca\libraio\attore teatrale? Io sì.
    Quello che m’interessava era far emergere il talento e la personalità di Francesca Bertuzzi, con alle spalle già due romanzi di successo pubblicati da Newton e un terzo al quale sta lavorando. E fare bella figura io, ci mancherebbe pure. Quando un signore si è avvicinato e ci ha detto: Sono un professore di Fisica, e sono terribilmente affascinato dal modo in cui riuscite a trasmettere le emozioni, sconosciuto a me che vivo di formule e numeri. E’ bello vedere due ragazzi giovani come voi e con una così grande cultura, io mi sono voltato a vedere se ce l’aveva con qualcuno alle mie spalle.
    Ringrazio Francesca, autrice riconosciuta, gentile, sorridente, complice di una chiacchierata che non sarebbe mai venuta così bene, se lei non fosse stata esattamente così com’è. Giuseppe e Stefania per avermi voluto intervistatore dell’evento. Orte, per averci ospitato nel meraviglioso giardino di piazza Colonna, che le foto non rendono il quantitativo di bellezza presente. Per motivi di spazio, ne ho pubblicate soltanto tre. Sulla mia pagina Facebook, se volete, ne trovate tante altre e, sempre se volete, potete pigiare su Mi Piace, tanto per diventare un po’ più interattivi. Grazie tantissimo pure al bel pubblico che ci ha riempito di complimenti, poi. Tanto entusiasmo non me l’aspettavo, e quindi lacrimuccia.
    Chiudo questo post con un messaggio d’incoraggiamento che Francesca mi ha lasciato in un’intervista, e che ha voluto ripetere al pubblico di Orte, fatto anche di giovani spaventati dalle difficoltà del futuro.

    Per quello che ho potuto vedere, lungo la strada si possono incontrare sbarramenti, persone che hanno un certo potere e che decidono di non farci andare avanti. Quando ci si trova all’angolo, bisogna ricordarsi che queste persone sicuramente un potere ce l’hanno, ma è solo quello che noi decidiamo di dare loro. A volte può bastare cercare un’alternativa per trovarla.

    Scrivi un commento →: Dove c’è Il Gorilla c’è casa
  • Lo scatolone dei Supermaket24 e quello delle Valigie tutte sbagliate si stanno svuotando in modo sospetto.
    Temo che Madre, spinta dalla sua angelica generosità, stia elargendo copie ad amiche e colleghe.

    Scrivi un commento →: [Madre Gift]
  • Ho letto, non oso dire divorato viste le tematiche, i due romanzi di Francesca Bertuzzi, Il Carnefice e La Paura, entrambi pubblicati da Newton Compton. L’occasione di presentarla, il 7 settembre a Orte, che sarebbe venerdì – forza, segnate sul calendario del vostro smartphone di ultimissima generazione! – ha aiutato i miei gusti ad avvicinarsi a un genere verso il quale non ho mai provato troppo fascino, il thriller. Se qualcuno mi avesse detto che un’autrice italiana, e di origini abruzzesi, poco più che trentenne, mi avrebbe entusiasmato attraverso storie noir, bagnate di sangue, vite sospese sull’orlo del precipizio, con uno stile veloce, secco, un continuo invito a voltare pagina, fino fermarmi a bocca aperta sull’ultima riga e una lacrimuccia, avrei risposto: Dài, non scherziamo! Questa è roba da John Grisham, Michael Konnelly. Maschi e americani, insomma.
    Francesca Bertuzzi mi ha incuriosito fin da subito, da quando cioè il suo Carnefice, l’anno scorso, è balzato in testa alle vendite. Per un maniaco delle classifiche come me, un fenomeno simile non poteva passare inosservato. Così l’ho contattata e intervistata, in tempi non sospetti, per Sololibri.net (clicca qui).
    Il difficile per gli scrittori, ma potremmo dire per gli artisti in generale, non è tanto fare successo, quanto confermarsi. Forse è proprio per questo che autore ed editore, reduci da un esordio folgorante, di solito preferiscono lasciar passare qualche tempo prima di uscire con un’opera nuova. Il caso di Francesca Bertuzzi è l’eccezione che conferma la regola. La Paura esce esattamente un anno dopo Il Carnefice, quindi prestissimo e, opinione personale, è persino più bello del primo, anche perché molto diverso. L’autrice dimostra che cambiare le regole del thriller canonico è possibile. I colpi di scena cinematografici delle ultime pagine del Carnefice lasciano il posto a una storia di gente comune, che arriva al lettore in tutta la propria carica emotiva, e alla quale è impossibile non affezionarsi. L’autrice porta sulla carta uomini e soprattutto donne, attori e attrici di vite insoddisfacenti che, tutto a un tratto, si ritrovano nel vortice di un ciclone terribile, costrette a diventare eroi in un thriller anche un po’ sentimentale. Se qualcuno ha storto il naso, io sono stato piacevolmente sorpreso dall’attenzione che Francesca dedica alla caratterizzazione dei personaggi, che fa dei protagonisti persone che ti coinvolgono nei loro guai, con la stessa potenza della realtà.
    Quella che all’inizio sembra dover essere la storia di due ragazze che non si conoscono, Giuditta e Veronica, e di una bevuta in una notte drammatica, diventa la storia di una delle due soltanto, Giud, e di una promessa che Veronica riesce a strapparle prima di morire, per mano di un sadico che le ha stordite e legate in un capanno isolato, l’una di fronte all’altra. Veronica muore, Giud riesce a liberarsi e a raggiungere, grazie all’aiuto di Gio, incontrato per caso, l’indirizzo che Veronica era riuscita a sussurrarle. Ci trova una bimba di cinque anni, Emma, e un borsone con 50mila euro in contanti. Giud sa che Emma, che non sembra aver avuti altri che sua madre accanto, ora è in grande pericolo. La vita di Giuditta prende una piega inaspettata. In Emma e Gio sembra ritrovare nuovo vigore verso la ricerca di quella felicità alla quale ormai aveva rinunciato. La volontà di rispettare una promessa silenziosa e l’affetto per Emma la spingono a far luce sull’accaduto. Giud finisce per credere di non avere nulla in comune con Veronica, e che la sua cattura è stata solo il frutto di una sfortunata coincidenza; che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Invece non sa che qualcuno le ha rapite per un motivo preciso, e che i suoi intenti malati non si erano affatto esauriti con l’uccisione di Veronica.
    La paura si fa ansia, mancanza di fiato, apnea, istanti decisivi in cui scegliere una strada costa caro, errori dovuti al bene, legami dolorosi segnati da un passato torbido che, pagina dopo pagina, viene a galla.
    Ho un sacco di domande per l’autrice, e non vedo l’ora che arrivi venerdì per intervistarla davanti al caloroso pubblico dell’Ottava Medievale. L’appuntamento è per venerdì alle 17, presso il Giardino di Piazza Colonna, Orte. Ringrazio Giuseppe e Stefania della libreria Il Gorilla e l’Alligatore per avermi voluto intervistatore dell’evento, che trovate anche su Facebook. Come al solito, ve lo ricorderò quasi fuori tempo massimo. Se potete, siateci!

    Scrivi un commento →: La Paura, l’occasione per una chiacchierata con la rivelazione del thriller italiano
  • Vivete!

    Non mi ero accorto di essere rimasto per minuti immobile, con gli occhi che per direzione avresti detto puntati sull’olio bollente di friggitrici da sgrassare, ma che in verità guardavano tutto e niente, oltre la materia davanti, e si domandavano se l’immagine di quel volto riflesso sull’acciaio fosse l’ora e qui, oppure una proiezione di me con disegnata l’usura di vent’anni in più. La mano di un collega mi ha condotto indietro. Ho detto: Ero sovrappensiero, con in tasca un imperativo senza più punti interrogativi. Cambiare. Me lo ripeto da anni. Bene, è arrivato il momento di farlo. E il momento è l’autunno che verrà. L’estate mi ha restituito gli stimoli che la stanchezza fisica di un intero anno aveva esaurito piuttosto in fretta, bicchiere dopo bicchiere, come una bottiglia di acqua naturale fresca al pranzo di Ferragosto. Quando tornano le forze, i sorrisi, l’imprevisto, torna anche la voglia di progettare, inutile in una quotidianità già decisa. Ho attraversato settimane di recupero. Niente a che vedere con i minuti finali di una partita di coppa, alla disperata ricerca di una vittoria ritenuta meritata. Si tratta di un percorso benessere senza stabilimenti termali o Spa. E’ il risultato di una riflessione arrivata a due passi dal precipizio quando, ad alta voce, mi sono domandato: Ma come mi sto riducendo?
    Vi è capitato mai di guardarvi allo specchio, o nel riflesso di una porta a vetri, e trovarvi da buttare? Non fatelo, ché trasformati in concime per il prato inglese non vi sentirete di certo più soddisfatti. Ma inventatevi qualcosa per uscirne, per generare l’unico processo inarrestabile: il cambiamento. Aprite la finestra e fate entrare tutto il caldo di quest’ultimo infernale anticiclone. Permettete al sole di farsi sentire sui vostri corpi, ricordarvi cos’è calore, cos’è sudore, cos’è occhi chiusi a ricaricare le pile. E’ un po’ vero che gli esseri umani vanno a energia solare. Siamo più complicati di un’automobile alla quale basta benzina e tagliandi per andare avanti a oltranza. A noi non bastano 6 o 7 ore di sonno a notte, per svegliarci e metterci a costruire. Abbiamo bisogno di energie vitali che ci facciano sentire bene, che ci convincano di valere, che ci facciano piacere per quello che siamo. Arrivano un po’ dal sole, un po’ dagli altri e tanto dai nostri sogni che ci mantengono a galla.
    Io ero stanco come un intero stanco, e stanco come un collage di parti, ognuna stanca a suo modo e più delle altre. Alla sera non riuscivo a tenere gli occhi aperti per pensare. Questo mi faceva arrabbiare perché, per me, un angolo di solitudine riflessiva giornaliera è più importante dei cereali a colazione. La rabbia tentava di salire in superficie, ma crollava poco dopo. Mi era chiaro che non stessi procedendo nella direzione giusta, però continuavo nell’attesa di un’illuminazione che una routine così logorante non mi avrebbe offerto mai.
    Continui a fare, fare, fare. Non riesci a leggere. Ti stai impoverendo, costretto a relazionarti con individui che non frequenteresti, se non fossi costretto dal lavoro che fai, a batterti per argomenti e conquiste di nessun interesse. Ti stai imbruttendo, ingrassando, invecchiando. Eppure persisti, perfettamente integrato nella catena di montaggio della vita, per la bella vita di qualcun altro. Sembra che questa condizione sia a tal punto di tuo gradimento da toglierti dalla testa l’eventualità di cambiarla per una migliore, non solo per convenienza, quanto e soprattutto per la qualità. C’è la vita, e quindi tu, Matteo, prima del lavoro, dei doveri, delle responsabilità, del denaro che ti ammazzi per avere e ti basta appena per la metà del mese, devi vivere.
    Per tutto questo, e molto altro, io vivrò.

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  • Puoi essere il padre, il figlio, il fratello, oppure il più fidato amico che lei abbia mai incontrato; comunque non ti darà ascolto. Non perché sia sorda, o non capisca quello che le vuoi dire. Le parole hanno un significato ben preciso, e tu le utilizzi in modo appropriato. Sa perfettamente come sei fatto, qual è la tua logica, a differenza tua che non entrerai mai nella sua. Ti ha capito, ma decide di sbagliare ancora, perché lei preferisce una vita, sbagliata per te, forse pure per lei, questo non lo so. Potrei chiederle cosa pensa della sua vita, ma non lo faccio perché ho l’impressione che mentirebbe. Mi spiace vederti in questa brutta condizione. Mi spiace tanto pure che lei non si preoccupi per te. Non riesci a trovare serenità, nonostante tu abbia toccato, bandierina dopo bandierina, tutte le tappe, finché si è trattato di una vita sola: la tua. Quando è arrivata lei, è arrivato pure il bene per lei. Affamato, ti consuma. Non ti fa dormire saperla chissà dove, di notte, mentre lei dorme di giorno e non si domanda di te. Non ti fa dormire la paura che possa combinare un guaio grosso, e che tu, stavolta, non possa far niente per porvi riparo. Hai sempre fatto tutto quello che potevi per aiutarla, nel modo che hai tu di aiutare chi senti legato a te. Per te il legame di sangue conta. Guardandoti, potrei dire che non ci sono altri legami più forti. Questo tuo modo di dare priorità ai rapporti è un’altra di quelle cose che non condivido, ma è il tuo, perciò stringo le labbra e ti apprezzo di più. Mi fai tenerezza quando la distrazione ti coglie, in un attimo in cui il pensiero non lavora, e sorridi per una scemenza detta da me, oppure vista e sentita in tivvù. Un attimo è troppo poco rispetto agli altri infiniti atomi di tempo che hai trascorso e trascorrerai chiedendoti di lei. Ho creduto anch’io che le cose sarebbero potute cambiare, che tu facessi bene a tentare con la dolcezza, la rabbia, l’accondiscendenza, la freddezza, l’irremovibilità, le grida, la pazienza, la disponibilità a viziarla, a correrle incontro e ad aprirle la porta, a chiudergliela indefinitamente. Niente è servito a niente.
    C’è un punto fisico al quale, prima o poi, si arriva, che apre la vista su un luogo sconfinato che si chiama rassegnazione. Nel tuo caso, potrebbe significare riposo. Staresti meglio se decidessi di lasciarla in pace. Quella che ai tuoi occhi è la direzione della rovina, magari non la condurrà così in basso, nel disastro. Forse sta tentando di sentirsi padrona, dimostrando agli occhi di tutti di non saper badare a se stessa. Forse un giorno si vedrà come la vedi tu, e non si piacerà. Nell’attesa di un cambiamento, ti prego di fermarti a leggere, e pensare. Di fermare le tue intenzioni con lei. E non aver paura che potrebbe essere troppo tardi, quando riacquisterà il senno perduto, perché non sarà così. Non ti rimprovererà per averla lasciata sola fra le polveri della battaglia persa. Ti ringrazierà, io almeno penso che farei così. Fa parte dello spirito umano e delle sue strane logiche, che la fanno assomigliare a te per una cosa: la resa non esiste, c’è sempre tempo per ricostruire, pezzetto dopo pezzetto, quello che si può. E queste sono almeno due cose.

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sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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