• Misure preventive attuate in questi giorni per scamparmela dal virus che sta infestando Villa Madre:
    – Prima di uscire dalla mia stanza, mi accertavo, tramite la sospensione del padiglione auricolare a 4 millimetri dal legno ciliegio settecentesco della porta, alla ricerca di rumori che indicassero una presenza, che l’intero piano fosse sgombro da entrambi gli appestati (Madre e mio padre).
    – Procedevo a passi decisi, allungando quanto più potevo la gamba, per ridurre al minimo il tempo di attraversamento dell’aria batterica nella zona di criticità dagli appestati frequentata, secondo il risultato delle espressioni: stanza cucina + stanza salotto = allarme rosso e stanza bagno = pista nera.
    – La mano su bocca e naso perenne, a evitare che la suddetta aria potesse veicolare qualcosa all’interno del mio accogliente stomaco, e da lì far germogliare, in una moltiplicazione esponenziale, milioni di quei vermiciattoli malvagi coi denti gialli di Esplorando il Corpo Umano, che poi cacciarli non è piacevole; che si opti per la via d’uscita anatomica principale o per quella secondaria (la porta sul retro) fa poca differenza, anche per il colore.
    – Fingevo di non esistere. Isolato dal mondo senza concedere parola ad alcuno, eccezion fatta per chi ha potuto dimostrare con un referto medico, che includesse un esame approfondito delle feci e della loro consistenza, di non aver manifestato sintomi della patologia negli ultimi 33 giorni precedenti l’incontro. Mio padre e Madre naturalmente non hanno potuto ottenerlo e quindi, sono desolato, ma non ho potuto evitare loro la sensazione di aver perso un figlio.
    – Mantenevo una distanza di sicurezza, possibilmente chilometrica, anche dagli individui certificati, in virtù della certezza che le peggiori pugnalate le becchi quando non te le aspetti. Final Destination l’avete visto tutti, no?!
    – Mi sono fatto istallare un piccolo lavabo in camera, con sotto-ripiano contenente 4 flaconi di amuchina per le mani, da sfregare ogni mezzo minuto, e 2 di acido muriatico, per chi invece osasse oltrepassare la distanza di sicurezza.
    Ebbene, quando già gridavo vittoria e abbassavo le difese, l’esercito dei Denti Gialli ha sferrato l’attacco. Qualche lieve fastidio nel sottopancia (non andate troppo sotto con la fantasia) già il sabato pomeriggio, che ho liquidato con: “Sarà per colpa della minestra di fagioli del pranzo!” che Madre mi ha presentato con entusiasmo dietetico: “Prendine 2 piatti che non è pasta! È una minestra! Pas… ehm fagioli!” come se io soffrissi di una patologia visiv-tatti-gustativa che m’impedisse di catalogare come pasta i chili di rondelle scotte, che sguazzavano in un liquame marrone, spupazzandosi i fagioloni in via di disfacimento. Nonostante ci fossero tutti gli elementi per pensare che tale composto fosse la causa del mio malessere, ancora solo accennato, non era così. Le mie condizioni sono andate peggiorando fino al momento dell’esplosione, al lavoro, davanti a una cliente che non si accontentava mai: “Possiamo aggiungere questo timballino? E… uh ci sono anche le zampe di rana! Sembrano squisite. E vorrei provare, se non è troppo disturbo, quei pezzetti di, come si chiamano, mannaggia, dolci…”. L’ho abbandonata in cassa nel pieno del suo interrogativo. Mi scuso, ma avevo la testa che suonava la danza maori Haka degli All Blacks remix e le contrazioni da partoriente di cucciolo di tirannosauro. Sono tornato a casa con la guida di Dio; al volante già sono un pericolo nel pieno delle mie facoltà, figuriamoci con la febbre a 38, i conati di vomito e una serie di altri particolari che lascio estrarre alla vostra intuizione.
    Ammalarsi di sabato sera non ve lo consiglio. Andrete incontro a una serie di impicci da giorno festivo.
    – Il sito dell’INPS in manutenzione. Se non avete un medico di famiglia in ordine di santità come il mio, che prova e riprova fino a tarda sera, cambiatelo! Altrimenti vi toccherà pagare qualcuno perché vi consegni il certificato prima all’INPS e poi alla sede di lavoro.
    – Il numero da chiamare per rinviare una visita specialistica in ospedale è attivo solo dal lunedì al venerdì, dalle 12 alle 13. Mettiamo il caso che io avessi avuto una visita, pagata e prenotata da un mese e mezzo, per lunedì 23 gennaio alle 8.30, e il sabato precedente fossi stato colpito da un uragano di malanni, non ci sarebbe stato modo di rinviarla senza lasciar pensare a una scusa, visto che, al massimo della celerità, avrebbero risposto alle 13 del lunedì e l’appuntamento era per 4 ore e mezza prima. Ogni riferimento…
    I complimenti per il tempismo me li faccio da solo, però non è giusto. Sono sempre gli sfigati a rimetterci. Sì, quelli che a 28 anni ancora non si laureano, come dice questo signor Martone che avrei molto piacere di conoscere.

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  • Le fotografie delle famigliole sorridenti, davanti alla nave semi-affondata, tristemente celebre di Costa, hanno riaperto una ferita. Un gran vociare su una strada non più abituata. Pantaloncini, t-shirt dai colori accesi della piena estate, zainetti in spalla, cappellino, una mano nella mano del proprio bambino e la digitale, pronta a scattare, nell’altra. Li guardo tutti, tanti provenienti da ogni parte d’Italia, pochi pure da qualche città degli Stati vicini, passeggiare a pochi metri da me, che mi sento un alieno nella mia città, che non posso riconoscere in quella condizione alla quale ancora non mi abituo, ora che sono passati quasi 3 anni, figuriamoci a poco più di un anno dalla fine del mondo. Ognuno ha un mondo suo, e non occorre che finiscano tutti in sincronia per poter dire che è finito il mondo. Il mio è finito il 6 aprile del 2009. Ne ho ricostruito un altro fatto di pezzi che non si incastrano, un mondo riciclato, fai da te, senza istruzioni, con materiali poveri tenuti assieme da un incalcolabile amore per la vita, pure nell’assenza.
    La vita genera vita in una moltiplicazione che ha inizio in un punto, il principio nel quale sta il seme, in attesa di acqua che lo nutra e faccia spuntare microscopiche radici che attecchiscano alla terra e trovino, in uno stelo sottilissimo, la forza di attraversarla. Io ho visto la vita rinascere dal niente, dove non c’erano semi, come un miracolo che non voglio condividere, che non voglio raccontare, del quale non m’importa parlare, il mio miracolo, intimo, nel buio di una solitudine sconosciuta, infastidita a morte da tutto quel chiacchiericcio a L’Aquila, in Via XX Settembre, a Ferragosto del 2010.
    Chiudo gli occhi ed entro in uno di quei palazzi. Mi permetto di farlo solo col pensiero, pur sapendo di non esserne degno. Facilissimo farlo solo col pensiero, quando qualcuno, molti, avrebbero voluto trovarsi a mille miglia da lì, o anche appena fuori, e invece erano dentro, non per loro volontà, a vivere gli ultimi istanti, quando avevano 100 anni ancora davanti, dio mio. Dall’interno, lo spettacolo sovrumano di tanti esseri (sovr)umani in gita fuori porta a L’Aquila, il giorno di Ferragosto, ha fattezze peggiori, perché più dolorose, come frecce che congiungono i sorrisi, all’ingiustizia di bocche abbandonate su pietre; le mani intrecciate, all’ingiustizia di mani ferme su pietre; le passeggiate di Converse, all’ingiustizia di gambe e piedi immobilizzati dalle pietre; tanta felicità, all’ingiustizia di una incommensurabile infelicità eterna, di chi non avrà più motivo di vivere, ora che manca chi il motivo lo accudiva, eppure deve vivere per forza; il bisogno di fermare con un click le proprie facce sorridenti davanti all’abisso, al buio, al silenzio lasciato dal boato, preceduto dalla gioia giovane di chi L’Aquila la sceglieva e poi imparava a voler bene a ‘sta città, nonostante tutto.
    Torno in me, ad abitare il mio corpo immobile in un punto qualunque della strada, chiedo ancora scusa per aver calpestato, seppur solo con la mente, i pavimenti delle vostre stanze vuote, anzi, piene zeppe di dolore, perché tutto si avverte tranne il vuoto, in questo pieno che fa male. Da qui, fermo sul marciapiede, mi domando cosa ci fanno tutti su Via XX Settembre.
    Non si rendono conto di essere l’unica forma di vita in questa strada? E allora perché permettono ai loro bambini di schiamazzare, perché implorano l’un l’altro di fotografarsi, perché si incitano e si consigliano pose carine, pose ammiccanti, pose da luna park?
    Le fotografie dei turisti del macabro, con sullo sfondo mezza nave, hanno riportato in alto l’interrogativo. Non ho ancora trovato una risposta alla voluttà di comparire davanti alle macerie di una storia dal pessimo finale.  
    Senza condanna, per carità, con un misto di pena e vergogna, certamente, e nessuna, nessuna spiegazione.

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  • Non so se ho beneficiato della benedizione di qualche Santo protettore della Letteratura o, semplicemente, Amazon ha deciso di ringraziarmi di tanta pubblicità gratuita e meritata. Comunque. Torno a casa dal lavoro all’1na di notte, dopo aver filtrato 12 vasche d’olio, 2 delle quali capienti il doppio delle altre, che puzzo di fritto a tal punto da non sapere se sentirmi più un essere umano o una patatina, facciamo un patatone umano, e trovo una sorpresa di quelle grandi: Supermarket24 in classifica su Amazon. Non so chi o cosa abbia innescato il meccanismo di passaparola che ha permesso al mio libro, per mesi stabile attorno alla posizione 9mila e 200qualcosa (giuro!), di saltare fino alla posizione 23 nella Narrativa Contemporanea, sotto a Jonathan Franzen e sopra a Erri De Luca, ma così è. So che un bel po’ del merito è vostro, che mi avete scritto, e io vi ringrazio e vogliovi un giga-bene. C’ho impiegato una 40ina di minuti per riprendermi dallo shock, poi ho subito fatto alt+Stamp sulla tastiera per fermare l’immagine, che costituisce la testimonianza di quanto dico e soprattutto la prova che non sono impazzito tutto assieme e neppure a poco a poco. Fra 10 anni, quando sarò un vagabondo, e come unico tetto sulla testa avrò quello di un ponte, riguardando vecchie foto ingiallite, potrò ricordarmi del mio momento di gloria su Amazon. Non serve che vi elenchi le conseguenze che la tale esperienza, per me sovrannaturale, ha causato sulla quotidianità di questi 2 giorni. Anzi, sì:
    – Ho passato la notte ad aggiornare la classifica di Amazon col terrore di essere superato da Erri De Luca (che poi ce l’ha fatta, ma io tengo botta).
    – Mi sono svegliato completamente rincoglionito, ho messo a bollire il latte, ho preso ad aggiornare Amazon, poi Twitter e Facebook per dire a tutti: “Ehi, sentite, basta parlare di argomenti di poco conto come la nave e Schettino (che adesso sarebbe scivolato nella scialuppa. Con tanti angoli pericolosi, in una nave lunga 200 mila chilometri, pure inclinata, lui proprio nella scialuppa doveva scivolare? Certo!), sono in classifica su Amazon, mica pizza e fichi!”. Ho dimenticato il bollitore sul fuoco. Il latte ha preso vita, è uscito dal pentolino, si è fatto una passeggiata sul piano cottura, prima di bussarmi e comunicarmi che il bollitore, nero petrolio ormai, mi salutava caramente e semi-fuso.
    – Ho dimenticato di pranzare e stavo dimenticando pure di andare a lavoro.
    – Fatto doccia, barba, squarciandomi la faccia in più punti tipo falla della Concordia (se, al posto della lametta Bic con la bandella verde, avessi utilizzato un coltellaccio per il pane, sarebbe uscito meno sangue. La mia editrice mi fa notare che sono un po’ troppo pulp, sempre a parlare di sangue e cacca, però come lo esprimo il concetto del sangue senza dire la parola sangue?), vestito e uscito di casa in 12 minuti, dimenticando che ho un corpo che va nutrito, appunto.
    – Nel corso delle solite 5 ore lavorative, col pensiero fisso al mio Supermarket24, solo soletto a difendersi in un oceano di squali, ho causato qualcosa come un milione di euro di danni, che non mi verranno detratti dai miei prossimi 500mila stipendi, come qualcuno mi ha minacciato, perché non potete farlo, no!
    Insomma, sono 2 giorni che vivo quest’incubo da classifica. Supermarket24 non vuol saperne di tornare al 9milesimo e 200 posto, là dove io sto tranquillo. In questo preciso momento è 14esimo. Da qui posso vedere il culo della Mazzantini, che sta in alto in alto. Mi fate un regalo, voi che passate di qua? Vi accattate una copia di Supermarket24 a testa (si parla sempre di ebook; lo dico perché ieri una ragazza mi ha scritto chiedendomi come mai in libreria costa 14 euro e su Amazon 3) così la supero? (Qui c’è la scheda dove trovate il link per farlo.) Mi è sempre stata sui ciufoli M. Mazzantini, da quando, 7 anni fa, prima dell’uscita di Non farmi male, le scrissi per avere qualche consiglio. Mi rispose:

    La mia casa editrice (Mondadori) non pubblica esordienti. Buona vita, Margaret

    (Margaret, perdonami, Licia Troisi, Paolo Giordano, Saviano e Piperno, tanto per dirne 4, cos’erano, quando sono stati pubblicati da Mondadori?) Buona vita?! Aaahhh, che nervi! Buona vita a te, tiè! Allora, me lo fate ‘sto piacere? Eh?!

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  • Per poter esprimere un parere utile sul nuovo Kindle, ho atteso di completare la lettura del mio primo libro digitale, ‘I love shopping con mia sorella’, che non è proprio quello che si definisce comunemente un mattone. L’ho acquistato sul kindle-store per 3 miseri euro e 99 centesimi. È il quarto episodio della celeberrima serie. Speravo di ridere tanto, come nei precedenti almeno, e invece ho riso poco, e spesso per forza. In dubbio se acquistare il prossimo, visto che i 9 euro digitali non è che siano così invitanti, inizio ‘Dalla parte di Swann’. È il primo dei 7 volumi di cui è composta l’opera attraverso la quale il signor Marcel Proust ha deciso di lasciare un segno indelebile nella storia della letteratura di sempre e di ogniddove, ‘Alla ricerca del tempo perduto’, acquistata nella sua interezza per 4 euro e 99 centesimi, contro i 21 dell’edizione cartacea di Newton. La velocità con cui procedo, pure nella lettura di un testo che merita la calma dovuta alla comprensione piena, mi convince che l’acquisto del Kindle sia stato uno dei più azzeccati, sicuramente degli ultimi anni, ma forse della mia vita, almeno di quelli fatti con i soldi miei. Ehm, comunque, prima di entrare nello specifico del dispositivo – giuro che stavolta lo faccio – voglio farvi assaporare un po’ del Proust che sto scoprendo come un bimbo davanti a un’avventura, alle porte di un mondo popolato di draghi, principesse da salvare, eroi e tesori, inestimabili come le pagine che mi è capitato di leggere criticate da chi: Proust mioddio proprio non lo reggo!

    Abbiamo bussato a tutte le porte che si aprono sul nulla, e alla sola attraverso cui è possibile entrare, e che invano avremmo cercato per cento anni, ci sbattiamo contro senza saperlo, ed essa si apre.

    Ho desiderato ritrovarmi attorno al tavolinetto di metallo, sulla veranda della casa della zia Léonie, in una tiepida serata di Combray, a discorrere col signor Swann, ammaliato dalla sua personalità molteplice e distante. Così, tanto per dire che Marcel Proust non scriveva proprio come Fabio Volo, ecco.
    Cerco di rispondere alle frequently asked questions, meglio conosciute con la sigla FAQ. Sono le domande ricorrenti, le prime curiosità che un utente vuol soddisfare prima di fare il grande passo di acquistare un dispositivo Kindle, attualmente in vendita a 99 euro solo su Amazon.it, a partire dalle osservazioni dei criticoni a prescindere (gran brutta categoria di cui io stesso facevo parte, e quindi mi riesce facile leggergli il pensiero).
    – Cominciamo da quella fondamentale: “Io proprio non ci riesco a leggere testi lunghi su un monitor. Dopo un po’ mi bruciano gli occhi e mi fa male la testa”. Allora, il Kindle è nato per leggere e basta. Non telefona, non invia sms, non fa il caffè né stampa alcunché. Non si può utilizzare neppure per stabilizzare un tavolino traballante, cosa in cui riesce benissimo un bel tomo di pagine di carta. Sulla base di questa osservazione, se qualcuno ha realizzato un dispositivo che fa solo e soltanto una cosa, cerchiamo di concedere almeno il beneficio del dubbio alla possibilità che faccia la tal cosa benissimo. È normale associare il concetto di lettura su schermo, all’esperienza che quotidianamente facciamo col nostro PC, che utilizziamo per svariate ore consecutive. Questo ci induce a pensare che leggere su Kindle stanchi, perché anch’esso con un monitor. Invece proprio per niente, perché Kindle utilizza una tecnologia che si chiama E Ink, detta anche carta elettronica. È una tecnologia di display progettata per imitare l’aspetto dell’inchiostro su un foglio. A differenza di un normale schermo, che usa una luce posteriore al display per illuminare i pixel, l’e-paper riflette la luce ambientale come un foglio di carta. Con Kindle potete leggere ovunque, anche al sole, senza riflessi sullo schermo.
    – “Sì, ma il profumo della carta, la sensazione di sfogliare le pagine. Io sono un tipo romantico!” Che vi devo dire, pure io lo sono. Eppure non mi dispiace per niente rinunciare a quintali di carta, come credo non dispiacerà alle nostre foreste, né a dover fare 6 mesi di pesi in palestra (come i pollici del monitor) per poter sostenere l’edizione cartacea del Signore Degli Anelli, che devi pure stare attento a dove l’appoggi, se no sfondi qualche tavolinetto. È uno dei tanti bei libri grandi che mi piacciono e che, quando vado in vacanza, mi occupano un terzo della valigia e, all’aeroporto, fanno la loro parte nella conta del peso del bagaglio. Il Kindle pesa 170 grammi, più leggero di un tascabile. È spesso come una matitina, sta facilmente nella tasca sul didietro dei jeans e contiene fino a 1400 libri (2 GB di memoria totale).
    – “Sì, ma come ce li metto i libri dentro? Io e la tecnologia siamo proprio agli antipodi!” Nemmeno io sono uno scienziato, eppure non ho avuto alcuna difficoltà ad acquistare 18 titoli nei primi 15 giorni di utilizzo del Kindle, spendendo tanto quanto una prima edizione qualunque, presa in libreria. Potremmo dire 18 libri al prezzo di 1. Il meccanismo è molto semplice, praticamente fa tutto lui. È dotato di Wi-Fi integrato; quando siete nel raggio d’azione di una rete, potete collegarvi al negozio virtuale e comprare i libri che volete. Potete acquistare anche dal sito Amazon.it e, in meno di 60 secondi, vi ritroverete i libri sulla home del vostro dispositivo, proprio grazie alla connessione. Non avete bisogno di cavetti, fare trasferimenti. Il libro passa dallo store, direttamente sul vostro Kindle.
    – “Poi mi trovo in strada e mi si spegne nel bel mezzo della lettura. Tanto si sa che le batterie di questi cosi durano pochissimo.” Questo è secondo me un altro punto che fa di Kindle un oggetto perfetto nel suo genere. La durata della batteria oscilla fra i 20 giorni e il mese intero. Sì, potete leggere per un mese con una sola carica. Questo è dovuto alla tecnologia a bassissimo consumo energetico. Una carica completa richiede approssimativamente 3 ore con il cavo USB connesso al computer.
    Altre caratteristiche sfiziose:
    – Non si surriscalda mai.
    – Ha un pulsante che permette una semplice navigazione sullo schermo per selezionare parole, sottolineare frasi, o cercare definizioni sul dizionario. Quindi niente più impronte digitali sullo schermo, dovute all’uso di un touchscreen abusato e che al Kindle non serve.
    – Ha 8 grandezze regolabili dei caratteri. Si può aumentare la grandezza del testo semplicemente premendo un pulsante.
    – Ha un dizionario integrato con ricerca istantanea. Kindle vi permette di cercare immediatamente la definizione senza dover abbandonare il libro: basta selezionare la parola con il pulsante di navigazione e la definizione viene visualizzata automaticamente in fondo allo schermo. È comodissimo.
    – Si possono aggiungere note, oppure sottolineare dei passaggi che Kindle memorizza in un file, all’interno del quale conservare gli estratti che vi hanno più emozionato dei libri che avete letto e amato.
    Considerato che fra poco mi toccherà spezzettare questo post e distribuirlo in edicola a puntate, facciamo che basta così. Io non ho ancora trovato aspetti negativi nel Kindle, se ne avete qualcuno da raccontarmi, fatelo pure. Altrimenti compremus et adoremus Kindle!

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  • Vomitare è la moda del momento e Madre non disdegna certo le nuove tendenze. Lei le mode non le segue, le lancia. Così, ha aperto le porte di Villa Madre a un virus intestinale persino peggiore di quello che si è abbattuto sulla mia persona nella Parigi grande grande grande. Ho trascorso 2 dei 4 giorni di villeggiatura in albergo, a seguire Ballando sul Ghiaccio sul satellite. Il terzo giorno, che credevo di star meglio, al contrario di Gesù Cristo non sono resuscitato secondo le scritture, ma l’ho passato ad ammirare le piastrelle decorate dei cessi del museo d’Orsay, mentre i miei compagni di viaggio ammiravano Monet, Manet, Renoir, Degas, Cèzanne, Millet, insomma le più belle collezioni d’arte del mondo. Anche fossero state le più belle piastrelle del mondo, converrete con me che non è proprio la stessa cosa. Se il virus d’allora si limitava a moderate espulsioni rapide di materiale gastrointestinale dalla bocca, alimentare o no che fosse – molto dipende dalle abitudini della vittima – questo attuale ha subito un’evoluzione e al vomito associa un disturbo della defecazione, caratterizzato da un aumento dell’emissione della quantità giornaliera di feci, con diminuzione della loro consistenza, altrimenti detta cacca lenta.
    Ho visto Madre:
    Non riuscire a sollevarsi dalla madre-poltrona per poter assumere una compressa di Imodium e un flaconcino di Enterogermina, neanche con me che tentavo di issarla con notevole sforzo e nessun apprezzabile risultato. Il gesto mi ha ricordato un giorno di un’estate lontanissima, su una barca in mare aperto con cugini, padre, Madre e zii. Tutti si sono buttati a farsi una nuotata al largo, nei paraggi della barchetta. Io ero ancora troppo piccolo per vedermi riconoscere il permesso di fare lo stesso. Tutti sono risaliti agevolmente, tranne Madre che proprio non ce la faceva: si spingeva con le braccia e ricadeva in mare senza forze. Allora mio padre, dal bordo della prua o della poppa, mo’ non so bene, l’ha afferrata per i polsi e ha puntato i piedi; i cugini grandi e lo zio, aggrappati ai fianchi di mio padre, hanno cominciato a tirare con tanto di ooohhh issa! in coro. Madre si lamentava per il dolore che le provocava lo strusciare della pancia sulla superficie della barca, finché si sono dovuti arrendere tutti all’umiliante conclusione di trainarla a riva come si fa coi cetacei feriti.
    Passare una notte intera seduta sul divano del salotto a luce spenta, perché allungata a letto le facevano male le ossa, senza lamentarsi né chiamarmi mai. Quando sono andato da lei, alle 2 di notte, sperando di convincerla ad andare a dormire, mi ha risposto: “Domani mi sarà passato tutto, tu vai a dormire”.
    Quando il virus ha traslocato nel corpo di mio padre, le scene si sono fatte ben più spettacolari, da effetti speciali cinematografici, direi.
    Ho visto mio padre:
    Fare scatti da centometrista. Partire dalla taverna, salire a una velocità record a 4 a 4 le scale, arricchendo la scena con tonfi e urla di sofferenza, che non ho udito neppure quando gli hanno tolto la vena safena dalla gamba, con un’anestesia blanda che si è rivelata ahilui insufficiente.
    Sfondare quasi la porta del bagno e rimettere l’impossibile imprecando al cielo, chiedendo aiuto pure alla Madonna e a Dio, prima di tornare barcollando giù in taverna e seppellirsi sotto quintali di vecchie coperte, per poi, qualche minuto dopo, ripartire verso il bagno fra strepiti e ululati tarzaneschi che risuonavano per tutte le stanze di Villa Madre e, temo, anche nel vicinato, francamente un pochino esagerati per ciò che gli stava accadendo. E che sarà mai un po’ di vomito!
    Telefonarmi dalla taverna 8 volte in un’ora per chiedermi aiuto. Scendevo, lo trovavo sepolto come sopra descritto, gli domandavo cosa potessi fare e lui rispondeva con frasi del tipo: “Lasciatemi pure morire qua”, “Siete degli insensibili!”, “Aiutatemi, aiutatemi… aiutatemi!”, “Oh Dio mio, perché mi stai facendo questo!”. Al che io mandavo gli occhi al cielo rassegnato, quasi a chiedere perdono per lui, chiudevo la porta e tornavo a ridere di lui in cucinetta, in compagnia di una Madre perfettamente ristabilita sulla sua madre-poltrona rossa.
    Stamane mio padre si sveglia presto come al solito, si veste, si improfuma e va al lavoro. Madre, al pomeriggio, lo aspetta con la paletta di legno per il sugo in una mano, che il mio culo ben si ricorda, quando mi beccava che non ero andato a scuola, e il coltellaccio per il pane nell’altra.
    Al suo ritorno lo accoglie così: “Siamo guariti di botto, eh?!” Mio padre, a quel punto, torna nel personaggio, imposta la voce in modalità moribondo now e sussurra: “Mi reggo in piedi con le mani e coi piedi. Lasciatemi stare!”, si toglie la giacca e avanza a passi trascinati verso il divano. Madre non resiste ed esplode: “Io sono stata male 2 giorni. Ho dormito una notte seduta sul divano, immobile come una statua. Ho vomitato per ore. Mi hai forse sentito? Te ne sei accorto?” poi si gira a guardarmi: “Ho forse fatto come questo attore consumato?” e indica mio padre. “Hai forse sentito dalla mia bocca quei ridicoli versi da orso trafitto da una lancia, che ha emesso tuo padre per tutto il giorno?” poi di nuovo a lui: “Tu dovresti recarti immediatamente a Milano, salire sul palcoscenico del teatro alla Scala, e interpretare la parte del protagonista nello spettacolo dell’uccello straziato. Com’è che si chiamava… ah sì! La morte della cicogna!”
    E io, quante speranze ho di uscirne sano e salvo?

    Scrivi un commento →: [Madre Imodium]
  • Gianni Morandi, nel corso di Domenica In, renderà nota la lista ufficiale dei big in gara al Festival di Sanremo. Io, che con Gianni ci faccio colazione tutte le mattine, gli ho strappato un nome dietro l’altro, fra un caffelatte, una barretta al cioccolato ipocalorica e una corsetta all’alba fra i viottoli del quartiere. Lo so che non si fa, ma lo faccio lo stesso. Ecco chi saranno i big in gara, con un giorno d’anticipo e qualche stupidissimo commento dei miei.
    Arisa secondo me sta a Sanremo come il clown Ronald sta a McDonald’s. Ce la ritroviamo sempre lì, coi suoi travestimenti e quegli occhialoni da cretina che fanno tanto tenerezza. Ormai ci siamo affezionati, è la mascotte portafortuna del Festival, ma non vi nego che mi fa un po’ paura, come Ronald d’altra parte. Il clown mi ricorda IT di Stephen King, che acchiappava i bambini e se li portava nelle fogne della città. Arisa mi fa pensare a un mostro venuto da un quadro del Picasso nella fase cubista. È proprio necessaria?
    Samuele Bersani, dato per disperso dopo la meravigliosa Replay del Sanremo 2000, ci riprova. In questi 12 anni, qualche collaborazione, un paio di dischi di inediti che son certo non consiglierebbe neppure al suo peggior nemico e Lo scrutatore non votante. Esci da questo corpo!
    Chiara Civello non pervenuta. “Siamo sicuri che sia la lista dei big?” Gianni Emme, col bombolone in bocca e le mani su una fetta di torta ai mirtilli, mi fa cenno di sì con la capoccia. Sul sito ufficiale di ‘sta guagliona ho letto un po’ di cose che ha fatto, sperando di riuscire ad aprire un cassettino della memoria che contenesse un’informazione che la riguardi, chiusa in un giorno remoto del mio passato. Ma niente. Per me Chiara Civello, fino a 5 minuti fa, non esisteva. Viaggio nell’ignoto.
    – Il viaggio nell’ignoto prosegue a tutti gli effetti con Toto Cutugno che dovrebbe essere vivo, visto che parteciperà. Io ero certo del contrario. A meno che la sua esibizione non sia in collegamento audio dall’Aldilà con l’aiuto di Bossari dallo studio di Mistero che ha tutti i mezzi per farci apprezzare il ri-ritorno della presenza Toto. Pregate per lui affinché la salute gli resti accanto almeno fino all’inizio del Festival, e lasciatelo cantare ché è un italiano vero. Coi tempi che corrono, uno che ne va fiero, teniamocelo stretto. Monumento (ai caduti…no, caduto).
    Dolcenera è stata spesso protagonista di queste pagine. L’ultima volta ho tentato di dare un senso al testo del suo recente singolo Il sole di domenica che, come direbbe Rinco_Vasco, un senso non ce l’ha. Centinaia di persone al mese finiscono ahimè su quel post, cercando in rete una risposta. Qualcuno che spieghi loro che cosa voleva dire Dolcenera quando si è messa a delirare di territori rei confessi ed espressioni letterarie che infieriscono sull’idea che ha di sé. Voci di corridoio (sempre il buon Gianni Emme) dicono che abbia composto il testo del singolo sanremese con Parolando e che si sia trovata molto bene. Compra una vocale!
    Gigi D’Alessio si esibisce con Anna Ta… no! Loredana Berté che, nell’occasione, tenterà il ricongiungimento con la sua voce dispersa da decenni. Federica Sciarelli ha promesso di aiutarla. Ha già disposto la messa in onda della fotoscheda della voce di Loredana Bertè all’interno delle prossime 18 puntate di Chi l’ha visto? pertanto, chiunque l’abbia vista o sentita, che è più probabile, può chiamare in trasmissione e salverà Loredana dall’ennesima figuraccia, sperando che stavolta la sua canzone sia almeno inedita. Quanto mi piaceva (clicca qui)! Io gli avrei almeno consegnato il premio come miglior plagio di tutti i tempi. Quando finisce un amore.
    Lucio Dalla e Pier Davide Carone… E pure Lucio ha cambiato partner! Va be’, scusate. Io ai duetti maschili proprio non ci arrivo. Capisco uomo + donna che fa tanto amore, passione e vivo per lei. Capisco donna + donna che fa tanto amici come prima. Ma uomo + uomo no. Mi vengono in mente Pupo ed Emanuele Filiberto, Morandi e quegli altri 2 che volevano dare di più. Madonìa e Battiato l’anno scorso che salvami. Deleted! Non soltanto perché Pier Davide Carone in un solo anno ha inciso un CD che ha venduto più di 100mila copie e ha scritto l’unico libro di Amici non-scritto da Zanforlin, in classifica per mesi. Non conta che non dovrei invidiarlo come non dovrei invidiare niente che provenga da Amici. La verità è che lui la settimana prossima va a Sanremo con Lucio Dalla e io vado a fare le analisi del sangue con Madre.
    – L’ultima volta che ho sentito Eugenio Finardi supplicava: “Extraterrestre, portami via, extraterrestre vienimi a cercare…” e mi sa che l’extraterrestre non solo l’ha cercato, ma l’ha pure trovato e portato via su un altro pianeta. E fin qua, poco male. La domanda che sorge spontanea è: come ha fatto a tornare? Che si sia rotto i balloons pure l’extraterrestre? Cambio canale.
    – C’è stato un periodo in cui Irene Fornaciari, che dal cognome intuite essere la figlia del buon vecchio ubriacone Sugar, destava in me un tale senso di repulsione che creai un gruppo su Facebook dal titolo evocativo: Irene Fornaciari puzza. Dovrebbe esistere ancora, perché su Facebook tutto si crea e nulla si distrugge, sapevatelo prima di lasciarvi prendere dalla creatività! Ho tentato di farlo dopo aver ricevuto un paio di messaggi minatori da un suo fan accanito, l’ultimo si concludeva con: “Se non capisci Irene, non potrai mai capire niente. Stupido!” e il suo (di Irene Fornaciari in persona) messaggio privato a metà fra nonmenefreganienteperchéiosonosuperiore,anziciridopuresopra e senoncancelliquestogruppotifaccioscriveredall’avvocatodipapàevediamocomevaafinire, ma niente. Il gruppo è incancellabile. Per farmi perdonare tiferò per lei. Predico bene e razzolo male.
    I Marlene Kuntz li associo a un concerto a piazza Duomo, a L’Aquila. Mi riferisco a un tempo in cui L’Aquila era ancora L’Aquila e Piazza Duomo aveva il Duomo tutto intero. Nonostante questo non è un buon ricordo. Come di un sibilo, un verso soffocato, un sussurro nel vento, tipo un ultimo respiro esalato da un moribondo. Paura!
    Emma Marrone porterà a Sanremo una canzone scritta per lei dal cantante dei Modà, col quale ha duettato l’anno scorso. Vorrei mettere una pulce nell’orecchio della graziosa compagna di Francesco Silvestre. Quei 2 non ce la raccontano giusta. Saranno contente Colomba Pane e quell’altra delle Lucky Star, ve le ricordate? C’entra ancora il buon Bossari che nel 2003 si fece venire quest’idea grandiosa di formare una girl-band attraverso selezioni televisive e furono scelte quelle 2 ed Emma che incisero il singolo Stile (clicca qua per vedere il video) la riconoscete? Io non sempre, continuo a confonderla con Alessandra Amoroso che confondo con una bambina di Io Canto.
    – Posso saltare Noemi che mi fa più paura di Arisa e IT con la voce defunta della Bertè e il corpo ectoplasmatico di Cutugno? Ogni volta che la guardo vedo in lei il volto di Chucky, il bambolotto assassino e faccio incubi terrificanti (stavolta pensateci bene prima di cliccare). Cambio canale 2.
    Francesco Renga è un altro di quelli che se non la smette di partecipare farà la fine di Toto, ma con una superiore arguzia: lui con una canzone c’ha inciso 25 CD. Chissà se troverà il tempo di sposare Ambra che intanto lo tradisce con Bellocchio, che la bacia con in sottofondo Angelo di Francesco Renga. Loop.
    Nina Zilli, ecco il tasto dolente. Nina Zilli sì. Nina Zilli, speriamo che. Nina Zilli è pericolosissima. Parlo per me e di me. L’ultima volta, me la sono vista brutta con quella canzone (clicca qua per ascoltarla) che, se la risento, mi fa ancora salire la rabbia. Però sì, lei è brava, non è Giusy Ferreri e, secondo me, nemmeno puzza.

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  • Ho perso il piacere di fare serata a L’Aquila; ieri mi sono ricordato il perché. Quando torna un amico da fuori (lontano), è una gioia intima che festeggio con un brindisi alla prossima, a questa, all’anno tutto intero che guardo con attesa. A quello che potrebbe cambiare, ma chissà come mai, non. Alla vicinanza, all’abbraccio. All’amicizia insomma, e quindi usciamo. È giovedì, ci sono gli universitari. Non per niente lo chiamano il giovedì universitario. E dove vanno?
    Prima c’erano le baracche sul Viale Della Croce Rossa. Il nome lasciava presagire il destino di quei chilometri d’asfalto: i punti di ritrovo per sfasciarsi di vino, super-alcolici e drogarsi; adesso giacciono semi-disabitate e silenti. Se dipendesse da me le smantellerei una dietro l’altro. Non mi è mai parso bello travestire una larga strada di passaggio da bidonville.
    A quasi 3 anni dalla scossa, il centro è tornato in parte percorribile. Da solo, mi verrebbe da dire. Sì, una specie di magia. Qualcuno ha raccolto la sfida di aprire un disco-pub proprio in mezzo a un cimitero e i fatti gli danno ragione. Un fiume di ragazzi e ragazze migra verso il Corso e si dirama in quelle 3 viuzze, infilandosi nei locali. Ben vengano sempre i volti giovani e gli occhi vispi, in questa non-città alla quale resta la loro speranza e poco più. È un fenomeno di rara intensità. I corpi si avvicinano e si fondono fino a diventare un impetuoso magma umano che travolge tutto quello che incontra, compresi noi che vorremmo proseguire in un’altra direzione e invece ci ritroviamo dentro lo Zenzero, a far parte a tutti gli effetti di un tappo di carne che chiude il locale ermeticamente. Se è vero che è difficile trovare posto, con questo freddo poi, che tutti si riversano all’interno, è altrettanto vero che, se lo trovi, sappi che è per sempre, come un De Beers. Da lì riuscirai soltanto a fine serata, è una promessa. Non ci sarà molto da aspettare. Le serate di questi tempi durano meno, e non per l’ora legale/solare, ma perché il signor Sindaco Cialente ha emesso un’ordinanza che obbliga i gestori a chiudere bottega al massimo all’1na di notte il giovedì e il sabato e, udite udite, a mezzanotte in punto i giorni feriali. Bisogna far presto se no la carrozza ritorna zucca. Quindi diventa un episodio normale che all’1na meno 5, con ancora in mano il bicchiere di plastica da 0.2 con 19 blocchi di ghiaccio e il resto lemonsoda (e il Gin? Boh!), mi si avvicini un energumeno: “Ci accomodiamo fuori? Grazie!” e mi dia una spinta verso la porta. Il motivo è di ordine pubblico. Come quando a scuola un bambino spacca una mazza di legno in testa a un altro e la maestra mette in punizione tutta la classe con mezza Divina Commedia da imparare a memoria. Non si fa, e per L’Aquila è doppiamente deleterio perché va a colpire il tessuto sociale ed economico, rianimato dallo stato di morte in cui versava proprio dagli studenti, che sono tornati, che l’hanno scelta nonostante tutto (e quanto tutto ci sarebbe da raccontare), che in fondo ‘sta città la amano e a L’Aquila ci pensano.
    Chi ci pensa a loro? Che:
    – Si sono adeguati a strutture universitarie fatiscenti, arrangiate, ordinamenti didattici che se li racconti paiono barzellette, che però fanno piangere.
    – Non hanno un teatro vero, un cinema soltanto, tenuto malissimo – mi permetto di dire – ché accomodarsi sui rimasugli appiccicosi di pop corn e caramelle non è piacevole, come non lo è dover scegliere fra 5 film, i soliti 5. Anzi 4 ché Natale a Cortina di De Sica necessitava giustamente di 2 sale, semivuote, ma comunque 2.
    – Cercano alternative in una città che non c’è. E non valgono le mezze misure, né è facile immaginare quanto può non esistere una città.
    Io  esco poco, non fa niente. Mi rintano in casa. Leggo, scrivo, sogno, una cenetta di tanto in tanto. Ma loro di anni ce ne hanno 20 e 25. Bisogna accudirli, sostenerli, creare diversivi, passatempi, iniziative, farsi guidare dalle loro necessità, cavalcare le loro idee, che sono potenti come uragani.
    Cacciati in malo modo ci rimettiamo in macchina. Lo riaccompagno a casa. Noto una volante della Polizia dietro, che svolta sempre dove svoltiamo noi e arriva fin dentro il piazzale. Il piazzale di casa sua, proprietà privata. La mia automobile e quella della Polizia che ci ha seguito, seguito come criminali. Accosta alla mia automobile spenta.
    “Buonasera, abita qui?”
    Il mio amico risponde: “Sì”, io avrei risposto: “No, stiamo perfezionando il piano per una rapina seriale a tutti i condomini del quartiere”.
    “Un documento ce l’ha?”
    Il mio amico gli passa la Carta d’Identità dal finestrino. Lui la guarda e gliela restituisce. Aspetta qualche istante poi torna in macchina. Ci saluta, ma non se ne va subito. Parlotta col suo collega a fianco. Ci saranno rimasti male, magari si aspettavano che li invitassimo a prendere un tè in salotto.

    Scrivi un commento →: L’Aquila by night: coprifuoco e ronde
  • Per la celeberrima serie: Gli spassionati consigli di Matteo Grimaldi, va in onda il primo episodio del 2012: Compratevi un Kindle proprio mo’!
    Voglio parlarvene da una settimana. Oggi me lo sarò ripetuto 1001 volte.
    “Matteo, devi scriverci un post!” “Lo farò, stai calmo eh!” mi rispondevo, senza neppure aver bisogno di uno specchio, in un continuo conflitto fra il me che dimentica e il me che ricorda. Sono tornato a casa proprio con questo buon proposito, sopravvissuto a ore di sorrisi da paralisi facciale speranzosi di ottenere cose, in una domenica in cui pure i gatti dormono. Il mio buono stato di salute serale è un particolare affatto scontato, che non riflette le reali sensazioni di morte per accoltellamento da cazzate acuminate, provate ora dopo ora. Un bombardamento di stancanti inutilità, a cominciare dal lavoro, per finire pure al centro commerciale, delle quali me ne fregava tanto quanto Maria De Filippi potrebbe sentirsi eccitata in un talk show dal tema scottante La femminilità oggi.
    Finalmente a casa, ho affrontato con la dovuta cautela l’esperimento culinario di Madre. Lei sa bene che ho scelto la strada della dieta dissociata come rimedio all’ingolfamento natalizio. Consiste in un pasto in semi-digiuno e l’altro che compensa con un’abboffata vergognosa. Di solito funziona e nel giro di qualche settimana mi sgonfio. Madre dice che sto ottenendo ottimi risultati.
    “Ti si sta dissociando il cervello a vista d’occhio!”
    Oggi insalatina per pranzo e a cena 4 involtini preceduti da un aperitivo ipercalorico. E che involtini! Ogni volta che Madre incappa nella nuova pubblicità della Philadelphia, dice ad alta voce: “Domani li faccio!”. Uno spera sempre che quel domani non arrivi mai, e invece è arrivato ed è diventato l’oggi. L’unico problema è che le sfuggiva qualche dettaglio su come bisognasse tagliare le zucchine, e sulla salvia, se andasse all’interno oppure sulla superficie e in quale quantità. La pubblicità non è più passata. Alla fine ha dovuto fare di testa sua, dopo aver maledetto più volte la tivvù che parla e straparla sempre, tranne quando dovrebbe (perché interessa a lei). Ma, si sa, a Madre non manca certo la fantasia e a me lo spirito di adattamento, né quello di sopravvivenza. Gli involtini con Philadelphia, anche detti alla Madre maniera, mi aspettavano cadaveri nel piatto, cotti e mangiati (citazione dotta).
    “Come hai risolto poi con le zucchine?” domando fissando la cremina verdognola su cui stanno adagiati 4 rotoli di carne infilzati da uno stuzzicadenti. A prima vista mi paiono… sì, insomma, amputati! Ci siamo capiti. La signora Bobbitt ci sarebbe andata a nozze.
    “Le ho tagliate a cubi, solo che forse dovevo farli poco poco più piccoli.”
    Proprio in quell’istante avverto un brivido al palato. Un pezzo di zucchina duro e gelido s’incastra nel dente del giudizio destro dell’arcata superiore. Cerco di mandare la lingua in fondo, nel tentativo di rimuovere il blocco d’ortaggio. Madre interpreta la mia espressione fra il concentrato e l’atterrito. Pensa che le voglia dire con gli occhi che i suoi involtini fanno schifo, che non abbia il coraggio di farlo con le parole. Invece sto solo tentando di staccare dal dente quella stalagmite verde dalla quale irradiano brividi inarrestabili che mi percorrono il corpo provocandomi delle micro-convulsioni ravvicinate.
    “Non sputare nel piatto, per favore! È una cosa che odio.”
    “No voio spuare…” questa maledetta zucchina glaciale mi sta uccidendo e non riesco neanche a parlare.
    “E comunque non l’ho ideata io la ricetta, e lo sai.” Prepara la sua auto-difesa.
    “No, ma infatti. Però forse ueste zucchi… si sarebbero otte mejo se e aessi taiate iù iccoe!”
    Senza far storie ingoio tutti i pezzi di zucchine contenuti nei 4 involtini di pollo e ripulisco il piatto asciugando la cremina con una fetta di pane. Madre sa bene che le zucchine non andavano tagliate così, però deve dire qualcosa che la scagioni completamente dall’ennesimo fallimento ai fornelli.
    “Strano che Rosanna non abbia scelto questi involtini alla Philadelphia con zucchine, fra le sue ricette consigliate. Si vede che sapeva benissimo che non sarebbero stati ‘sto gran che.”
    Parla della Lambertucci e del suo magazine Più sani Più belli col ricettario Mangiare Benissimo del quale si è fatta mettere da parte dall’edicolante tutti i numeri. La chiama solo per nome. Ormai sono diventate amiche.
    “Mamma, anche avesse voluto, penso che non avrebbe potuto fare pubblicità a Philadelphia!”
    “E perché? Di pubblicità ne fanno tante!”
    “Sì, ma sono pagati per parlar bene di questo e di quello, mica lo fanno per dare consigli a te e agli spettatori, perché gli state simpatici!”
    “Beh, si faccia pagare da Philadelphia!” È tutto così semplice per lei.  “Senti, ti sono piaciuti i miei involtini?” sbotta decisa.
    Al mio tentennante: “Sì…” socchiude gli occhi sospettosa e allora mi correggo: “So, cioè… ni… insomma non erano male però…”
    Madre: “Facevano schifo. Schifo, schifo. Non comprerò mai più una scatoletta di Philadelphia in vita mia”. A qualcuno o qualcosa doveva pur darla la colpa!
    Per agevolare la digestione mi sono buttato con tuffo a bomba sul letto, pronto a scrivervi del Kindle. Poi mi è tornata in mente Becky Bloomwood  e sono tornato alle pagine (virtuali) di ‘I love shopping con mia sorella’, il quarto episodio della serie. L’ho pagato 3.99 euro sul Kindle Store di Amazon.it assieme ad altri 16 libri presi in 6 giorni, per un totale di 21.86 euro, più di 2 euro in meno del prezzo di copertina dell’ultimo romanzo di Stephen King ‘22/11/63’ (23.90 euro), tanto per fare un esempio. Vorrei leggerlo, perché tutti ne parlano e ne scrivono bene. Pare che il Re sia tornato all’antico splendore narrativo. Pure Licia Troisi me l’ha consigliato su Twitter. Lo prenderò non appena uscirà la versione digitale. Insomma, il Kindle è bello e ve ne parlerò, così, per dare un senso di chiusura e completezza al post.

    Scrivi un commento →: [Madre Philadelphia]
  • I camini di tutto il mondo (tranne il mio) si sono risvegliati appesantiti da calze puzzolenti gonfie di dolciumi (il massimo dell’igiene proprio). Una vecchia notevolmente brutta – se fossi stato di buonumore, avrei detto diversamente bella – persevera nonostante l’età che, a parer mio, sarebbe sufficiente a farle meritare un sacrosanto riposo senile. Per via della manovra del professor Monti, sarà costretta a volare al vento gelido di gennaio, culo in sella alla sua scopa, per molti anni ancora. È inutile che dite che a 60anni si è stanchi, debilitati, perché non è così. A 60anni siete nel pieno del vostro vigore, convincetevene, quindi dovete lavorare duro e più di prima. E pure a 70 e a 7mila. Capito Befana?
    Si avverte la mia sottile inquietudine? Non è per la calza mancata, credetemi! (Al primo che mi offre una caramella gli rispondo che se la può infilare su per il solito buco.) È per ciò che mi è capitato ieri e che merita di essere condiviso, nonostante desideri da giorni parlarvi del mio nuovo Kindle. Ero al lavoro. Il mio è un lavoro di fatica e basta, non molta, ma non di testa. Pensate a un part-time in un ristorante in cui devi fare più o meno la stessa cosa per 5 ore al giorno, a orari variabili. Ci sono dei responsabili che coordinano il turno. Un tempo ero uno di quelli. Poi, per mia decisione, sono tornato un umile operaio. In particolare per:
    – Le ore lavorative giornaliere del responsabile. Di base 8, possono arrivare anche a 10. Se serve, devi andare a lavoro quando avresti riposo. Ore che fra l’altro non corrispondono alle ore pagate: sempre e solo 8. Se sei un responsabile, gli straordinari non esistono perché: “Dovete imparare a gestire il vostro tempo e riuscire a fare tutto nelle 8 ore in cui siete pagati”. Sì, poi saluti e vai via quando è ora e ti guardano storto: “Sei peggio di uno statale!”.
    – La paga di un responsabile. Coincide con quella di un operaio + circa 200 euro. Cioè, se io a 5 ore prendo 820 barra 850 nette, loro, a 8 barra 10 ore, ne prendono 1000 e qualche spicciolo, raramente 1100.
    Fare il responsabile e ambire a salire la gerarchia dell’impero (vice-direttore, direttore) sotto certi punti di vista può anche essere interessante, ma non faceva per me. Ho avuto un’opportunità e, per inseguirla con qualche speranza di raggiungerla, avevo bisogno di maggiore tempo libero. Questo, unito ai 2 aspetti pocanzi analizzati e preceduti da una lineetta, mi ha fatto fare un passo indietro. Continuo a considerare la scelta di auto-declassarmi come una delle più azzeccate mai fatte. Bene. Sento i vostri Machissenefotte! tuonare nell’aria e li comprendo. Questa piccola finestra sulla mia vita, dal grado intrinseco di interesse vicino a meno infinito, è funzionale perché possiate comprendere l’episodio di ieri sera. Il momento in cui un responsabile, per il quale provo una stima pari al grado di interesse della piccola finestra sulla mia vita, si è rivolto a me con queste parole: “Tu pensa a passare la scopa!”.
    Non che passare la scopa sia degradante. Lo faccio tutti i giorni col sorriso. Il modo in cui l’ha detto, però, non mi è piaciuto, e sto usando un eufemismo. Il suo tono, evidentemente mirato a umiliarmi, ha risvegliato il mio amico demone sornione. Vive dentro di me, come l’alieno nel cuore della signora bionda, spesso ospite del buon vecchio Maurizio Costanzo (ex-Show). Nel mio caso il demone dorme per il 93 per 100 del tempo. Quando qualcuno mi offende, lui si risveglia. In quel caso non sono più io a parlare, ma lui per bocca mia. È che io davanti alla maleducazione perdo il controllo (ma mai l’educazione) e rispondo. Così ho fatto ieri. Non ho ancora capito se a una persona maleducata, che ti offende, bisogna rispondere con la stessa o simile moneta, oppure fregarsene in virtù di una superiorità evidente a tutti. Se non avessi il piacere di ospitare Demo (non Morselli, ma il demone), mi verrebbe facilissimo scegliere il silenzio, magari il sorriso freddo e l’indifferenza. Poi mi ci trovo e continuo a credere che ci sono cose nella vita che si risolvono solo con un vaffanculo.

    Scrivi un commento →: Quando un maleducato vi offende, lasciate parlare il demone che è in voi
  • Dopo aver commentato l’ultimo articolo della coraggiosa Michela Murgia, pronta a prendersi anche gli insulti pur di dire la sua sugli autori che si auto-producono (argomento che mi fa sempre molto incazzare), scrivo per raccontarvi del mio Kindle. Anzi, fatemi tornare un attimo solo sulla questione, per favore perché non ce la faccio a tacere.
    Io capisco tutta la fatica, le attese insostenibili, le non-risposte, i rifiuti editoriali prestampati, le sensazioni di impotenza e inadeguatezza. Giuro che capisco tutto, non foss’altro che per il viverle quotidianamente, però a differenza di coloro i quali paiono proprio non riuscire ad andare oltre la convinzione: “Se non ti raccomanda nessuno, sappi che l’unico modo per pubblicare è versare 3mila euro all’editore (vampiro)!”, sono convinto che se un manoscritto ha dignità di pubblicazione, prima o poi qualcuno lo noterà e quindi lo porterà in libreria.
    Se ciò non dovesse accadere, è vero che ci sono le (solite) attenuanti:
    I grandi editori fanno fatica a leggere per bene i manoscritti che ricevono (figuriamoci i piccoli). Il perché è semplice. Per valutare centinaia di manoscritti al mese, ci vogliono risorse a sufficienza e non è pensabile pagare centinaia di lettori. Oppure voi, lamentosi autori emergenti, leggereste forse gratis decine di (quasi sempre) brutti libri altrui al mese? No, perché io non lo farei. Prima di arrivare alla decisione di pubblicare un testo, bisogna leggerlo per bene e pure più volte. Non è detto che si debba analizzarlo dalla prima all’ultima sillaba, almeno nella valutazione preliminare che quasi nessun manoscritto supera. Per capire se può valer la pena valutarlo attentamente, bastano una quarantina di righe prese a caso, e quelle vi garantisco che qualcuno le legge prima di buttarlo nel secchio. Se non lo butta subito, magari ne legge un altro po’ e a quel punto tutto può essere. Pure che appaia Maria (De Filippi) e vi chieda di scrivere il nuovo libro di Amici, a 4 mani con Luca Zanforlin.
    Non avere un agente significa partire svantaggiati. Gli autori rappresentati da un buon agente letterario hanno qualche possibilità in più di raggiungere la meta rispetto a chi si ostina a spedire il proprio romanzo, di 1450 pagine di struggente amore medievale, pure all’indirizzo di Tv Sorrisi & Canzoni. Non è che i buoni agenti letterari si trovino per strada, né trovarlo significa essere raccomandati. Da chi, dall’agente? Chiariamo pure questo, se no sembra che l’agente sia il pappone delle veline. L’agente decide di rappresentare un autore se ritiene che il suo manoscritto valga la pena. Quando vale la pena? Vale la pena se l’agente pensa di riuscire a piazzarlo presso un buon editore e magari di guadagnarci pure un po’, visto che il compenso di un buon agente è dato da una percentuale sui diritti spettanti all’autore. Un buon agente non può stare a perder tempo con tutti coloro i quali bramano la pubblicazione, ma deve lui stesso operare una severa selezione per potersi dedicare soltanto a quei manoscritti e autori che a fine mese gli porteranno in tasca qualcosa, sperabilmente tanto. Immaginate un agente che se ne va in giro per editori a proporre una schifezza. Perderebbe di credibilità e perderebbe tempo perché, nonostante lui sia un bravo agente, è difficile che l’editore deciderà di pubblicare il libro-schifezza. Un buon agente non può permettersi di perdere tempo, tantomeno credibilità, quindi se un autore riesce a trovare un buon agente, è perché se lo merita. La ripetizione fino alla nausea di buon prima di agente non è casuale; occhio che cascate male!
    Il manoscritto è finito per sbaglio nel tritacarte. La redattrice necessitava di un blocchetto per gli appunti e ha inavvertitamente scambiato il vostro malloppo di fogli capovolto per l’oggetto dei suoi desideri. La postina ha scoperto che siete aspiranti scrittori; da quel momento apre tutti i pacchi in partenza da casa vostra verso le sedi delle case editrici italiane. L’ha fatto di nuovo, impadronendosi stavolta proprio del manoscritto destinato all’unico editore che vi avrebbe detto Sì.
    Insomma, tolti inconvenienti di rara probabilità, ai quali aggiungerei anche l’iniziativa di qualche noto autore di pubblicare a suo nome il vostro romanzo, del quale è venuto in possesso per caso e, tanto che ci stiamo, pure i rapimenti alieni, mi sento di dire che, se il benedetto manoscritto è stato rifiutato, anche solo col silenzio eterno di tutti, beh, provate almeno a vagliare l’ipotesi che quello che avete scritto non sia all’altezza. No che vi vendete al primo stronzo che chiede danaro in cambio di una brutta edizione che non comprerà nessuno, perché nessuno ne verrà mai a conoscenza. Buon per voi, mi vien da dire.
    Io non so perché ho scritto questo post che vi giuro non volevo scrivere. Non mi volevo arrabbiare e volevo parlarvi del mio nuovo Kindle. Mi sono arrabbiato e non vi ho parlato del mio Kindle. Ma come fai a non arrabbiarti quando leggi commenti così fuori dal mondo? (Clicca qui!) Sostegno da parte mia a Michela Murgia, che è una che non le manda a dire.

    Scrivi un commento →: Se nessun editore vi pubblica, forse è perché

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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