• Ieri è stata una giornata NO di quelle che un pianto all’una di notte ci sta bene come la Nutella su una doppia crema catalana caramellata. Madre ha subìto un incidente a bordo della mia automobile. La cosa non l’ha minimamente turbata. Come poteva essere altrimenti? Lei è inossidabile, indistruttibile, ignifuga, dura come il diamante e, da quando frequenta la comunità di recupero dell’acquagym, è diventata pure impermeabile e inaffondabile come il Titanic. Ehm.
    La mia automobile è una Chevrolet Matiz acquistata 6 anni fa e della quale devo ancora pagare metà del suo (di allora) valore commerciale (adesso vale meno di un pacchetto di patatine Puff, ma quanto vale adesso non conta) in comode rate mensili di euro 190 che si esauriranno il primo luglio 2013. Aaahhh! Dolore!
    L’autrice del tamponamento è un’ottantenne con gli spilloni in testa, a bordo di uno scassacatorcio degli anni 20 che, in retromarcia dal suo parcheggio tombale, non si è accorta dell’arrivo di Madre e così l’ha presa in pieno. Il culo dello scassacatorcio, dopo aver sfondato lo sportello della mia Matiz, si è accomodato sul sedile del passeggero.
    Madre sta benissimo. Lo stesso non si può dire dell’automobile, se ancora vogliamo chiamarla così, e della ottantenne pilota, che forse non stava tanto bene neppure prima. Lo dimostrano le parole proferite immediatamente dopo la botta: “Signora, ma lei da dove arriva?”
    “Dal cielo, come la Madonna! Sono apparsa all’improvviso dietro di lei.”
    Ne consegue che oggi, giorno di riposo settimanale chiesto mesi fa per poter passare la giornata in compagnia della Sara, della Francesca e della Rachele a firmare copie e fare il figo allo stand Camelozampa, che espone a Più libri più liberi di Roma, l’ho passato invece a L’Aquila a fare i giri fra le assicurazioni e il mio meccanico di fiducia in compagnia di Madre. Capite che fra le 2 opzioni non c’è solo qualche differenza. È come trovarsi in paradiso, quando all’improvviso un buco nero ti risucchia e ti sputa in una dimensione terrificante, fatta di dolcissime urla materne, per poi scoprire che il meccanico ha fatto ponte, perdendo la mia fiducia, e allora bingo!
    Aggiungiamo al piatto ricco il pizzico finale di demotivazione, causata ieri mattina dal nuovo crollo delle mie aspettative. Le braccia, al cospetto di certe risposte, si scusano, ma proprio non ce la fanno; si staccano dalle spalle, piombano a terra e rotolano nella fogna più vicina. La crema catalana caramellata non ce l’avevo, la Nutella neppure, così mi sono sfogato con un bel pianto che va di moda, soprattutto nelle alte sfere. A differenza della nostra ministra, l’ho fatto non perché non riuscissi a pronunciare la parola sacrificio, ma perché piangere fa bene alla salute. Lo dice il professor William Frey in un’intervista all’Indipendent.

    Penso che ci sentiamo meglio dopo aver pianto perché ci siamo liberati di qualcosa. Le sostanze chimiche che sono prodotte quando siamo sotto stress, probabilmente sono rimosse attraverso le nostre lacrime quando noi piangiamo. La capacità dell’uomo di piangere gli permette di sopravvivere.

    Il professore pensa che le lacrime siano necessarie. Senza, non potremmo espellere totalmente lo stress incamerato e ciò farebbe aumentare il rischio d’infarto. Col pianto notturno devo essere riuscito a buttar fuori quasi tutte le energie negative, al punto che stamane la giornata è iniziata con la bella notizia che noi tutti aspettavamo. Il ristorante tipico ha sganciato il money, spiccioli di rame compresi. Il bonifico di euro 419 e 20 centesimi risulta sul mio conto corrente online. Tiro un bel sospiro di sollievo e telefono al mio amico Leoluca per informarlo che non c’è più bisogno di fare quelle azioni lì delle quali avevamo parlato, giusto per far capire al ristoratore che mica passiamo il tempo a spogliare i manichini.
    Voi avete qualche rimedio quando l’umore va giù e non ce la fate più? (Guarda che non esiste solo lei, devi muoverti un po’ ooo-ooo…)

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  • Il furto perpetrato ai miei danni da un tipico ristorante di Porretta Terme, del quale scelgo di mantenere (ancora per poco) l’anonimato, non sembra per ora proiettato a un’amichevole risoluzione.
    Riassunto puntata precedente [
    – Al termine della cena di martedì scorso, peraltro molto gradita, il folle digita, con estrema nonchalance, 465,70 euro al posto di 46,50 e mi porge il POS affinché io inserisca il PIN (senza controllare l’importo, non lo faccio mai, stronzo che non sono altro) e io lo faccio.
    – Mi accorgo solamente a casa, 3 giorni dopo, della sparizione della somma di euro 419 circa, equivalente per intenderci a metà della mia busta paga, a 500 chilometri di distanza dal tipico ristorante in questione.
    – Chiamo il fisso del ristorante. La signora, prima mi deride quanto basta per farmi sentire un idiota, come se la colpa fosse mia, cosa alla quale più volte mi pare che alluda, poi m’invita a chiamare il signor T, titolare e fratello del digitatore folle. (Il nome e il cognome saranno svelati assieme a quello del tipico ristorante, qualora la faccenda persista su questa cattiva strada, non soltanto a voi lettori, ma anche al mio avvocato, alle forze dell’ordine, e pure al Pentagono e all’Area51).
    – Telefono al signor T che mi chiede un fax con lo scontrino della ricevuta del POS e l’IBAN del mio conto corrente, promettendomi il bonifico fra il lunedì e il martedì della settimana entrante, cioè ieri.
    – Io ci aggiungo un paio di righe riassuntive, tanto per avere la certezza di evitare fraintendimenti e concludo: “Per qualunque comunicazione può contattarmi al numero 3497xxxxx3.” Invio il fax il venerdì stesso.
    Fine riassunto puntata precedente che trovate nella sua interezza a questo link]
    Visto che quei 419 euro mi mancano più di quanto ad Heidi mancasse Peter, rinchiusa nella villona di Clara con quella simpaticona della signorina Rottermeier, a Francoforte, stamattina, dopo aver verificato che sul mio conto non s’era mossa una foglia, decido di richiamare. Se avessero ricevuto il fax, avrebbero già chiamato. Ce l’ho messo apposta il mio numero, mi ripeto. Beh, mi sbagliavo. Il fax è arrivato, ma nessuno se l’è cacato.
    “Ristorante La VxxxxxA buongiorno?”
    “Buongiorno, sono Matteo Grimaldi. Volevo sapere se avevate ricevuto il fax che ho inviato venerdì.”
    “Quale fax?”
    “Quello con i dati per il bonifico. Ha presente la faccenda del POS che invece di scalarmi 46 euro me ne ha scalati esattamente 10 volte tanti?”
    “Un attimo che le passo il titolare.”
    Non faccio in tempo a dire: “Sì, grazie” che la sento presentarmi così: “È quello del bancomat”.
    Cioè, io sarei quello del bancomat?
    “Pronto?”
    “Salve, io sono quello del bancomat, lei dev’essere il signor T.”
    “No, sono il fratello.”
    “Ah, allora è lei che ha digitato, quella sera!”
    “Sì, come sta?”
    “Io bene. Voi?” (Il locale è ancora tutto intero, sì? Aspettate qualche altro giorno ancora e vedrete… le pietre proprio, piovere dal cielo, ma grandi grandi!)
    “Ha ricevuto il bonifico?”
    “Ehm. No, ho chiamato proprio per sapere qualcosa.”
    “Mi può richiamare fra 5 minuti che chiamo T?”
    Passano 5 minuti. Penso che 5 minuti uno lo dice tanto per dire e allora ne aspetto altri 3. Richiamo; squilla libero, ma non mi risponde nessuno. Metto l’acqua a bollire, il sale. Mi sbuccio un mandarino, poi un’arancia. L’acqua bolle, butto 130 grammi di spaghetti (quando mi innervosisco mi sale la fame). Richiamo. Potrebbe suonare all’infinito, eppure è ora di pranzo e quello è un ristorante, mica l’ufficio del signor Sindaco. Mi preparo per andare al lavoro. Porto con me la solita mela. È una specie di tradizione, io guido masticando mele. Visto che guidare e contemporaneamente mangiare una mela non mi basta, decido di richiamarlo, con l’auricolare eh! Stavolta risponde.
    “Ristorante La Vxxxxxx, buongiorno!”
    “Buongiorno sono sempre quello del bancomat. Ho chiamato circa 15 volte, ma nulla.”
    “Sì, mi scusi, ma… Comunque T mi ha detto di dirle che si scusa tanto, ma…”
    “…” (?)
    “…si è dimenticato di farle il bonifico!”
    “…” Non credo alle mie orecchie.
    “Pronto? Mi sente?”
    “Sì, la sento. È che la cosa mi lascia un po’ perplesso.”
    “Glielo farà entro venerdì!”
    “Bene, allora richiamo per confermarvi l’avvenuta ricezione.”
    Io penso che se mi fosse capitato, e non mi è mai capitato, di appropriarmi, pure involontariamente, di una somma di denaro che non mi appartiene, mi sentirei così male, ma così male, che potrei farmi anche 500 chilometri per riportare i soldi a chi li ho sottratti. Mi preoccuperei di chiamare, scusarmi almeno 10mila volte. Farei in modo che capisca che mi dispiace sul serio, oltre che cercare di porre rimedio al guaio il prima possibile. Invece questi se lo dimenticano. Sì, come alle elementari rispondevo alla suora quando mi beccava senza compiti: che me li ero dimenticati. Certo!
    Che faccio se venerdì non mi vedrò restituito il maltolto?

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  • Ieri le lacrime della ministra del Lavoro Elsa Fornero hanno rubato la scena alla crisi, allo spread, alla manovra, al nostro status di conclamata presente e futura povertà.
    Tutti insieme dai: “Per noi poveracci hip hip hurra!”
    Se avessi potuto, sarei salito sul palco e l’avrei abbracciata, la bisnonna che tutti noi vorremmo. L’avrei incitata a farsi forza. “Ce la puoi fare bisnonna Elsa! Il brutto momento passerà! La vita è bella e tu hai ancora tanti, ma tanti anni davanti! Credici fino in fondo e vedrai che riuscirai a pronunciare quella parola!”
    Sacrificio. Aaahhh! Dolore.
    In effetti ci vuole una gran faccia a chiedere agli abitanti di un Paese ufficialmente sottosviluppato di sacrificarsi ancora; lei evidentemente questa faccia non ce l’ha e si mette a frignare. Neanche piangesse per una questione personale poi. Per esempio: io che, se voglio scoprire i connotati di una pensione, dovrò rivolgermi a Giacobbo e implorarlo di farmi fare un sorso dal Santo Graal per arrivare a 150 anni anagrafici + 70 di contributi e allora forse… non ho mica pianto. E credo neppure voi. Qualcuno di voi ha pianto ieri? Sarebbe stato più giustificato il pianto sincronizzato dei milioni di Italiani all’ascolto che non il suo, a meno che la ministra Elsa Fornero non sia l’incarnazione di una bisnonna Madonna, che ci ama a tal punto da prendersi tutte le nostre pene nel cuore e soffrire per noi.
    Deve intervenire il Premier Monti, se no non si va avanti, che la esorta con quella che secondo me diventerà la frase dell’anno: “Commuoviti, ma correggimi!” quando comincia a fantasticare sulle pensioni minime e non sa più neppure lui cosa sta dicendo.
    Il signor preside riprende la brava insegnante che ha avuto un cedimento. Per la serie: La menopausa va combattuta, ma non in una conferenza stampa, soprattutto se si tratta del più importante passaggio della Storia moderna del nostro Paese. E lei si riprende.
    Non mi era mai capitato di vedere un politico piangere.
    “Meglio della faccia plastificata della Santanchè e delle barzellette di Berlusconi!” sento esclamare da più parti e leggo sui social network. Sì, anch’io ho la sensazione che sia meglio, però… Che cosa si piange?
    Le lacrime denotano un momento di commozione, felicità oppure disperazione. Escluderei la prima, a meno che la signora Fornero non sia una sadica pazza che gode per la disgrazia in cui è caduta l’Italia. La disperazione… mica le hanno infilato il gatto nel tritacarne! Insomma, è una donna di successo, neo-ministro con neo-dentatura, ricca, con dei bellissimi orecchini. Che cosa si piange?
    Secondo me lei quei provvedimenti non li avrebbe presi, per questo piange. Può essere? Me lo fa pensare l’attimo di estremo sconforto nello sconforto in cui, ripresa dalle telecamere di tutto il mondo, sussurra rassegnata: “Non va bene!” che è tutto dire.
    Voi come interpretate le lacrime della ministra?

    Scrivi un commento →: Elsa, ma cosa piangi?!
  • Mi manca l’aria. Ehi voi, dove avete nascosto l’aria? Ohmioddio, ridatemela! Mi convinco che sia tutto normale, visto che mi trovo in un bagno turco. Non so ancora chi sta per fare il suo ingresso, chi vorrà proprio me. Incredibile! Intanto, col culo appollaiato sulle piastrelle e gli occhi al soffitto costellato di bastoncini colorati, mi godo l’atmosfera deliziato dal cinguettio di un uccellino che neppure sulla spalla di Alex Del Piero, con le tette della Chiabotto a mezzo metro, dimostrerebbe tanta gaiezza. Il portale si apre. Una figura femminea dai lunghi capelli lisci avanza, prima lentamente e poi con passo sicuro, come se mi conoscesse.
    Sarà per via del vapore che non facilita la visibilità, sarà per i litri di liquidi che ho perso assieme alle forze e alla lucidità, sarà perché non mi aspettavo di incontrare Vanessa Diffenbaugh nel bagno turco di un hotel di Porretta Terme in provincia di Bologna (a 30 metri esatti dal ristorante in cui hanno risucchiato dal mio conto corrente 465,70 euro invece che 46. È così evidente che i maroni ancora non smettono di vorticare?), fatto sta che non la riconosco.
    “Matteo Graimaldo? La ragazza alla reception mi ha detto che ti avrei trovato qui.”
    “(Sarebbe G-R-I-M-A-L-D-I, con la i finale e senza a) Sì, sono io.”
    “Salve, mi chiamo Vanessa Diffenbaugh (finalmente ho capito come si pronuncia il suo cognome. Non chiedetemi di ripeterlo però, perché è tutto uno sputacchiare) cercavo proprio te. Ho scritto…”
    Il linguaggio segreto dei fiori, porcadiunavaccagrassaincalorevogliosadisessoscatenatoconuntoroinsaziabiledigranlungapiùanzianodilei!”
    “Come dici?”
    Per fortuna non conosce l’Italiano e quindi non coglie la forma di espressività popolare che ho fatto precedere al punto esclamativo. Tutto il dialogo fra noi avviene in Inglese. Io mi son premurato di tradurlo, cercando di restare fedele all’originale.
    “Dicevo… so bene chi è lei, complimenti! Ma cosa ci fa qui?”
    “Sto facendo il bagno turco, che domande!”
    “E come mai cercava proprio me, Vanessa?”
    “Perché vorrei essere intervistata all’interno della tua rubrica 4 Chiacchiere (contate) con…”
    Ma questa è completamente pazza!
    “È davvero sicura? Voglio dire… il suo romanzo staziona nella classifica da tipo 200 settimane, ha venduto qualcosa come 300mila copie solamente in Italia. Ha appena ceduto i diritti in America per oltre un milione di euro. Sono uscite recensioni su tutti i più importanti giornali del mondo ed è stata intervistata da radio e televisioni nazionali e internazionali. Cosa se ne fa di 4 domande di numero, poste da uno che non è un giornalista, non è uno scrittore, non è… insomma… cosa?”
    “La verità è che da quando hai intervistato Federica Manzon e quella gran figa di Giorgia Wurth, mi sono detta: loro sì e io no? E che sono io figlia della merda?! Sapessi che rabbia a sentirmi un’esclusa… Così ti ho cercato per tutta Italia e adesso voglio partecipare alla tua rubrica! Fammi una domanda, ora!”
    “Così, su 2 piedi e avvolto dal vapore, mi coglie un attimo impreparato…”
    “Chiedimi che volevo dire con questa storia del linguaggio segreto. Dove l’ho scoperto. Come impiegherò tutti i miliardi che sto incassando. Quali sono i miei progetti futuri. Se mi serve un interprete per parlare coi fiori… Qualunque cosa porca paletta fiorita!”
    “Signora Diffen, le mie sono domande mirate, proprio perché le chiacchiere sono solo 4 e allora vanno ben scelte. Ci devo pensare e questo posto non mi facilita il compito.”
    “Allora usciamo da questo inferno e infiliamoci nell’idromassaggio. Vedrai che un bel bicchiere di tisana depurativa stimolerà la tua curiosità.”
    E così posso presentarvi l’intervista più importante di tutta la mia carriera di non-giornalista. Signore e signori ho il piacere di ospitare sul mio divanetto virtuale a forma di penna piumata Vanessa Diffenbaugh. (Per leggere l’intervista cliccate qua!) Ora posso andare in pensione. I politici maturano la pensione con un giorno in Parlamento, io con un’intervista fatta bene.
    Naturalmente non è andata proprio così come da me raccontato. (Prima che mi arrivi un  jet privato carico di querele, è bene che lo specifichi.) Tutto il merito è della redazione di Sololibri.net e dell’ufficio stampa della Garzanti, così gentile da attrarre la signora Diffenbaugh nella mia trappola. Spero di aver fatto cosa gradita, come si dice. Grazie anche alla traduttrice, senza di lei nulla sarebbe stato così com’è, chevvelodicoaffà! Un grazie di cuore alle affezionate lettrici e collaboratrici di Sololibri.net, per aver contribuito con le loro curiosità ad arricchire l’intervista. Per ultimo grazie alla signora Vanessa, che non leggerà il mio ringraziamento, ma lo dico lo stesso, perché fa un certo effetto sapere che dall’altra parte c’è una che fa quello che vorresti fare tu, moltiplicato per 100 miliardi.
    Badate, ho arrotondato per difetto.

    Scrivi un commento →: [X] Weekbook. Vanessa Diffenbaugh nel bagno turco con me
  • Piombo a Villa Madre proprio a ora di cena, dopo 1000 chilometri in 3 giorni.
    “Con chi sei andato a fare questo pacchetto benessere?”
    “Con Alsazia, Lorena, Romolo e Remo.”
    “Sei sicuro di essere andato con tutte le persone che hai appena nominato?”
    Semmai del contrario. Rispondo con estrema convinzione: “Certo che sì!” pur consapevole che, quando Madre interroga, è perché sa.
    “Strano, stamattina ho incontrato proprio Alsazia dal parrucchiere.”
    Non mi resta che percorrere la via del dubbio: “Madre, sei sicura che fosse lei?”
    “Mi stai prendendo per una deficiente?”
    “Ok, a pensarci bene forse Alsazia non era dei nostri.”
    Tenuto conto che.
    – L’ultima volta che sono entrato in una piscina avevo 12 anni e ne sono uscito con la convinzione di odiare il nuoto, dopo che il mio di allora istruttore mi aveva ficcato la testa sott’acqua per un tempo che a me parve infinito. Quella è stata appunto l’ultima volta.
    – Non avevo mai fatto l’idromassaggio. Dell’altra roba-benessere che ha a che fare con l’acqua (percorso caldo/freddo, cascata per la cervicale, bombardamento fianchi/cosce, doccia colorata, nebulizzata, profumata – ignoro i termini tecnici, nonostante una signorina abbia speso 10 minuti abbondanti a illustrarmi le tappe che avrei affrontato, e quindi chiamo tutto per quello che mi è sembrato, per le sensazioni che mi ha dato, per la serie: parlo come magno –) ne ignoravo l’esistenza.
    – Non ero mai entrato in una sauna.
    – Né in una bio-sauna.
    – Il bagno turco lo avevo visto solamente nei film pornografici nei quali fanno l’amore fra sconosciuti, avvolti dal vapore.
    – Prima di martedì ero convinto che gli uccellini di bosco si trovassero nel bosco, invece ho scoperto che si trovano pure nelle SPA-benessere, altrimenti non riesco a spiegarmi quei cinguettii.
    Credo di essermela cavata egregiamente, a eccezione di un paio di momenti imbarazzanti.
    – Stremato, sudato, spossato, vaporizzato, inumidito, bio-saunizzato abbandono le chiappe su uno scalino del percorso caldo/freddo, precisamente nella corsia del caldo, a godermi il tepore dell’acqua. Si genera una fila, della quale mi accorgo soltanto quando il distinto signore con le vene varicose dietro di me decide di emettere un colpetto di tosse. Si tratta di un percorso che tu devi fare senza fermarti, passando appunto dal caldo, al freddo e poi di nuovo al caldo e al freddo quante volte vuoi, lo saprete tutti (tranne me). No che ti siedi, ma io mica l’avevo capito.
    – “Le mie ciabattine, hanno rubato le mie ciabattine!” grido allarmato alla fanciulla magrissima che dopo un po’ si presenta con le mie infradito-zattera in mano. “Erano nella sauna!”
    “Ah, pensa un po’! Chissà come… Devo averle dimenticate.” Le indosso e sento la pianta del piede avvampare fra le fiamme. Mi ustiono, ma non faccio una piega, mantenendo intatta l’espressione distesa sul volto, mentre capisco cosa ha provato Giucas Casella quando ha deciso di umiliarsi in mondo visione passeggiando sui carboni ardenti. Con la differenza che io per fortuna non ero in mondo visione.
    Il giorno dopo, colazione da Re. 2 tavolate piene di dolcetti, e la cameriera che ci chiede cosa preferissimo. A me è venuta la tentazione di risponderle: “Grazie faccio io!” e mischiare il latte e il caffè in una tazza. Quando ho capito che non funzionava come nelle topaie frequentate in questi anni, ho ordinato un gustosissimo cappuccino. Nell’attesa, da personcina discreta quale sono, mi concentravo ad ascoltare i discorsi degli altri. Giuro che ho sentito un uomo incravattato chiedere alla moglie: “Cara, gradisci del succo d’arancia?” testuali parole. Roba che neanche a Centovetrine. Al che ho abbassato lo sguardo sulla mia tuta acetata e ho desiderato uno smoking da prima colazione, oltre che un paio di zeri in più sul conto corrente.
    A proposito di conto. Ceniamo in un ristorantino tipico. Mangiamo divinamente. Fra l’altro scopro come sono fatte le tigelle e il sapore di quella salsiccia spalmabile non lo dimenticherò mai per il resto della vita. Euro 46.50 in 2. Pago col bancomat, come del resto faccio per quasi tutte le spese di questi giorni. La mia banca deve conoscermi meglio di chiunque altro per non avermi bloccato il conto. Considerate le uscite spropositate, poteva sembrare che qualcuno mi avesse clonato la carta. Torno a L’Aquila. Faccio un saldo per rendermi conto di quanti mesi dovrò lavorare per ricostruire quanto scialacquato. Mi si ferma il cuore finché non mi accorgo di una stranissima uscita di euro 465,70 proprio la sera della cena. È il conto del ristorante! Il signore si è “sbagliato” digitando 465,70 al posto di 46,50 (il 7 l’ha proprio partorito la sua fantasia), io non ho ricontrollato la cifra, ho digitato il PIN e poi OK. In sostanza gli ho regalato 419 euro. Ho chiamato e si scusano tanto.
    “Prima o poi dovevi accorgertene!” e ride. Cazzo si ride! “Passa pure al ristorante quando vuoi che…”
    “Io abito a 500 chilometri di distanza. Ero lì in vacanza.”
    Devo faxargli il mio IBAN e lo scontrino che mi hanno rilasciato. Il culo ha voluto che io, che butto via tutto all’istante, lo avessi conservato (senza volerlo) nel portafogli. E loro mi fanno un bonifico del preso-in-prestito, chiamiamolo così.
    Ditemi se a uno non gli deve partire la brocca.

    Scrivi un commento →: Il mio conto corrente ha “beneficiato” degli effetti della bio-sauna
  • Sono rietrato a L’Aquila ieri notte alle 3. Riassunto, (molto) riassunto, della questione ematica nello scorso post affrontata:
    – Nessuno si è accorto dell’alone rosso sangue sul taschino del pantalone.
    – Perché nessuno fondamentalmente si è accorto di me, tranne le telecamere che, a un certo brevissimo istante, hanno proiettato il mio faccione su RAI1, mentre ridevo e applaudivo come una foca esaltata. Questo è bastato a Madre, inizialmente ignara della mia destinazione, ma sospettosa per l’abbigliamento inconsueto, per telefonarmi e inveire in diretta contro il sottoscritto.
    – Il secondo round, quello importante, è rimandato a un appuntamento nel quale “possiamo parlare con un po’ di calma”, che spero si terrà entro i prossimi 1000 anni, impegni di queste persone meravigliose permettendo.
    Comunque stra-bello. Andateci a vedere Fiorello – lunedì sarà l’ultima puntata – perché capite quanto può essere grandiosa e luccicosa la vita di qualcuno.
    Bene. La faccio breve perché stamattina parto per 2 giorni di sano relax. Mi hanno regalato un weekend benessere. Una di quelle scatoline azzurre di latta, che scegli la località, il periodo, vai e ti lasci cullare da mani sapienti. La struttura è meravigliòòòsa. Si trova a Porretta Terme (per sbavare un po’ cliccate qua). Domani, dopo 3 ore di massaggi, bagni, saune, oli profumati e non so che altro, raggiungerò i miei amici-ci-ci-ci a Firenze.
    Devo arrivare entro le 15.00 e ho ancora le caccole agli occhi, la cacca al culo, la barba incolta, il trolley da riempire e la camera da riordinare, ché se no Madre mi manda un anatema a distanza e mi fa ricordare il soggiorno per tutta la vita. Esperienze passate, che restano indelebili ricordi drammatici, dimostrano senza ombra di dubbio che, se vuole, può tutto. Altro che Final Destination! Preferisco non metterla alla prova, visto l’umore di questi giorni già di suo detonante. Se potesse, prenderebbe Parolisi e lo legherebbe alle rotaie del binario 1 di Roma Termini.
    Ci rileggiamo forse giovedì, di sicuro venerdì.

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  • Attendo questa serata da circa 16 giorni. Son quei momenti che capitano una volta nella vita, se ti dice bene. Sarò in un luogo leggendario, a pochi passi da personaggi che non riuscirei a incontrare neppure se mi ci mettessi d’impegno a far loro le poste fuori dai grandi studi televisivi, o teatri, o alberghi a 5 stelle, o palazzetti gremiti, che frequentano per arte. Con qualcuno di certo ci parlerò, per dirci come stiamo dopo tanto che non ci vediamo; come procedono quei nostri progetti. Quando ci penso, mi viene da sorridere all’idea che esista un filo che parte da me e arriva a loro, che di mese in mese si fa più resistente. Non entro nei dettagli ché mi risale l’ansia e comincio a sudare gocce gelide e a muovere senza controllo la bocca, che non ce la fa proprio a non comporre ridicoli risolini ebeti da ricovero immediato in una struttura per casi umani schizofrenici. È bene specificare che nessuno farà caso a me, neppure il guardiano dei cessi, se un guardiano dei cessi c’è. Non per questo uno può andarci conciato alla bell’e meglio.
    Sono giorni che penso a cosa indossare. La sfida era trovare un abbinamento fra pantaloni, camicie, maglioncini, scarpe, calze a rete (?), cinture e cappotti già nel mio armadio, senza dover lasciare un’intera busta paga sul bancone di un negozio di grandi marchi, o dover partecipare in sequenza a Bisturi e al Brutto Anatroccolo per farmi trasformare in quello che potrebbe apparire a occhi frettolosi un essere umano presentabile. Quando stamane mi sono convinto di avercela fatta, la disgrazia si è abbattuta sulla mia vita, più precisamente sul pantalone prescelto.
    La prova finale prima della vestizione definitiva. Mi godevo il mio figurino allo specchio e raccontavo al telefono quanto mi stessero bene i pantaloni marroncini che Madre mi ha regalato in sostituzione di quelli, dalle più economiche e scadenti fattezze a dir la verità, che ha trasformato in una maschera di carnevale a pois rossi con un semplicissimo giro di lavatrice. Quando vedo comparire una striscia rossa poco sotto la cintura, con pozzangherina finale in corrispondenza del bordo della tasca, mi sento mancare. Maledico la stramaledetta pellicina dell’unghia del mignolo che ho torturato per tutto il tempo speso in bagno a fare quello che facciamo tutti, senza che storcete la bocca. La microscopica ferita lasciata dall’estirpazione della morta carne non era così microscopica, visto che ha maturato una sola, ma corposa goccia di sangue che io ho inconsapevolmente accompagnato sul pantalone per diversi centimetri.
    No, non l’ho sparata; le parolacce le dico, ma non mi metto a dare la colpa a chi, nell’alto dei cieli, è in tutt’altre faccende affaccendato che non nel rovinarmi l’unico pantalone decente in mio possesso.
    “Scusami, devo riagganciare… Sì devo farlo adesso, prima che mi metta a piangere!”
    Afferro uno degli straccetti pulitissimi che Madre tiene nello stipetto del lavatoio, lo bagno con poche gocce di acqua tiepida mischiate alle lacrime e comincio a strofinare prima delicatamente, poi un po’ meno delicatamente, per non dire arrabbiato come un orso a cui hanno portato via il suo miele sotto il naso. Il sangue non vuole sparire, eppure è una macchia fresca. Ma porca la tro…mba sì. La tromba del ca…nto. Esatto. Il canto della pu…bblica istruzione. Quella che mi ha insegnato a non spararla troppo grossa, però – ca…nto! – quando ci vuole ci vuole.
    Il risultato, dopo ore di trattamento e attesa che il tepore delle stanze di Villa-Madre asciugasse l’alone, è che l’alone c’è.
    Sono 2 a questo punto le possibilità a mezz’ora dalla partenza.
    – Cambio pantalone, e quindi cambio camicia e quindi cambio maglioncino e quindi cambio scarpe. Non se ne parla neanche. Io non ho una stanza armadio, ma solo poche cose, tante delle quali indicate per la mia vita di tutti i giorni, pertanto impresentabili, pochissime delle quali adattabili a una serata del genere, nessuna delle quali comunque all’altezza.
    – Indosso ugualmente il pantalone stando attento a far capitare il lembo del maglioncino a coprire l’alone. Farò così e, per sicurezza, passerò tutta la serata con la mano sulla patacca, in una posizione estremamente naturale e dinamica che il manichino della Standa a confronto è Andrew Howe.

    Scrivi un commento →: Tracce ematiche sul pantalone
  • Con un imperdonabile ritardo, ma lo faccio, perché il mio è un grazie che nel cuore è rimasto per tutti questi giorni, e dal cuore lo faccio uscire per raggiungere Miss Fletcher. Non ci conosciamo da molto, sempre se mi è concesso l’utilizzo di conoscere riferito a chi non ho visto mai, ma che leggo tutti i giorni. Se penso al suo blog Dear Miss Fletcher, mi viene in mente una grande palla di vetro con dentro una Genova segreta, che lei racconta ai suoi tanti lettori. Ci accompagna alla scoperta di botteghe legate alle tradizioni, viuzze calpestate da uomini che hanno segnato la Storia, piazze maestose e piccoli porticati ancora carichi delle imponenti atmosfere del passato che li hanno visti protagonisti. Lo fa con la maestria di una guida appassionata unita all’abilità del saper raccontare e all’amore per la sua città, che traspare dai suoi post.
    Miss Fletcher ha letto ‘Supermarket24’ e ne ha scritto. Il mio grazie è intanto per la fiducia che mi ha accordato acquistandolo, poi per il tempo e lo spazio dedicato al mio libro sul suo blog, ma soprattutto per le parole spese che, per me scrivente sconosciutissimo, sono linfa, ossigeno e spinta a insistere.

    L’amore, la vita, la fatica di ogni giorno, vissuti con ironia e sfrontatezza.
    I rituali, le idiosincrasie, le difficoltà, il tempo che fugge e non è mai abbastanza, vi riconoscerete in molti passaggi del libro di Matteo, in molti gesti e pensieri del protagonista, al quale non manca mai né la battuta né qualche pensiero affilato quanto efficace.
    Lo seguirete nelle sue peripezie e vi parrà naturale calarvi nei suoi panni.
    Il libro di Matteo Grimaldi ha un suo stile molto riconoscibile, vivace, spontaneo, a volte beffardo ed amaro.
    A voi scoprire cosa ne sarà dei sogni di Luca Sognatore, a Matteo Grimaldi il mio sincero apprezzamento per aver creato questo personaggio e il mondo che gli gira intorno.

    Ecco perché grazie, ma per un sacco di altri motivi. E grazie pure a tutte le lettrici e i lettori di Miss Fletcher che sono intervenuti numerosi (per leggere l’intera recensione clicca qua). Ho inserito l’articolo all’interno della scheda di ‘Supermarket24’ che trovate dentro a I MIEI LIBRI. Ci trovate anche il link al Commento di Chagall, e pure alcune citazioni scelte dallo stesso Chagall per il suo Segnalibro, che secondo me riescono in una panoramica sui vari livelli della narrazione.
    In questa domenica grigia, in cui il cielo pare una sacca di farina bagnata e il vento mi appiccica l’acqua in faccia, mi fa star bene pensare a chi mi dimostra affetto pure senza avermi incontrato; pensare che possa essere efficace un abbraccio, pure virtuale e che possa scaldare. Mi tornano alla mente le parole di una donna gentile che al termine dell’incontro di Orte è intervenuta domandandomi: “Non pensi che questa storia di internet, dei blog, dei social network abbia reso la comunicazione più fredda?”
    Scusate, come faccio a pensarlo?

    Scrivi un commento →: [IX] Weekbook. Supermarket24, segnalazioni che riscaldano
  • Ho dovuto ahimè interrompere un rapporto storico. Ci vedevamo poco, un paio di volte l’anno, poi ridotte a una, a fine novembre, però ci volevamo bene. Più lui che io. Viste le circostanze, io non potevo proprio volergliene, nonostante ci avessi fatto l’abitudine agli occhialetti da Harry Potter in pensione e al suo faccione dal colorito melanzana insanguinata, che non mi sono mai riuscito a spiegare. Quando mi vede entrare nel piccolo ufficio, ricavato all’interno di un palazzo dedicato ad altri commerci, mi accoglie sempre con un sorriso smagliante, con l’accezione di smagliante tenuto conto di tutti i limiti dovuti a un apparato dentario da rifare. Non è tutto oro quello che luccica. L’oro è bello e i suoi denti no. Ho qualche dubbio sulla preziosità del metallo di cui sono fatti; quel che è certo è che non luccicano, anzi.
    Ho salutato il mio assicuratore con le migliori intenzioni, stavolta le mie, di cambiare compagnia ché i suoi preventivi sono inaffrontabili, quest’anno più di sempre. Mi accomodo sulla poltrona e prima ancora di farmi proferire parola: “Scusa che c’ho una cosa da finire. Un attimo solo per favore”.
    “Certo!”
    Ha capito che voglio dirgli addio. Uh, le caramelle!
    “Posso…”
    “Un momento, è veramente questione di poco.”
    “No, dicevo se posso… (come si dice? Scartarmi, mangiarmi, succhiarmi…?!) una caramella?”
    “Fai pure! Io intanto finisco.”
    Mentre coso una caramella al limone, faccio il vago cercando di non guardare lui che lavora. Se parlo lo disturbo, se mi muovo lo disturbo, se mi schiarisco la voce lo disturbo, se tiro fuori il cellulare lo disturbo. Faccio attenzione pure a succhiare in silenzio. Quando un rivolo di bavetta si affaccia agli angoli della bocca, risucchio e mi vergogno per primo del suono inevitabilmente emesso. Lui smette di digitare per 3 secondi, come a dire: ti ho sentito schifoso che sei, e poi riprende. Da fuori arrivano le grida di una signora esasperata che alza la voce in un crescendo preoccupante: “Ho pagato! I-o-h-o-p-a-g-a-t-o!”
    “Lei ha pagato da settembre 2008 a dicembre 2009. Qui le si richiede il periodo gennaio 2010 dicembre 2010. Dove sta signora?”
    “Sta che l’ho pagato! Non mi credete?”
    Evidentemente no, penso quando finalmente Dente Solare alza gli occhi dal monitor ed esordisce con un: “Allora…”.
    Auguro alla donna fuori di dimostrare di aver pagato quello che secondo me non ha pagato. Che riesca a fregare per una volta questo mondo ladro che ce la fa sempre sotto il naso.
    “Qual è il premio che mi tocca quest’anno?”
    Che detto così sembra come se dovessi ritirare un riconoscimento, un sacchetto di gettoni d’oro, una targa celebrativa e invece no; quello dell’assicurazione è l’unico premio che quando lo ritiri paghi.
    “Aggiorno la tua situazione. Calcola che l’assicurazione ha imposto alti aumenti pure a causa dell’IVA.”
    “Sì, questa faccenda dell’IVA ci sta rovinan…”
    “601 euro.”
    “…” COFF COFF (Oddio la caramella… soffoco. Qualcuno chiami un’ambulanza!)
    “Che succede?”
    “La caramella!” COFF COFF: vomitino + sputacchio sul suo tavolo rivestito di lucidissimo vetro.
    “Vuoi un bicchiere d’acqua?”
    “No, ti ringrazio.”
    Inspiro/espiro 11 volte, finché non mi sento in grado di riprendere la discussione e affrontare il vero problema.
    “L’anno scorso ho pagato 489 euro!”
    “È aumentata, è vero. Ma, se ci pensi, la tua neanche tanto.”
    120 euro in un anno sarebbe neanche tanto?! Perché più ci penso e più invece vorrei infilargli tutte le sue caramelline su per il chiul?
    “Sono 120 euro. Non è tanto, è tantissimo! E senza farci neppure un incidente.”
    “Se ci avessi sbattuto sarebbe raddoppiata.”
    Eh no. Adesso parte e l’ha voluto lui. Lo sfogo gratuito, quello che lo sai che non produrrà alcun effetto, la classica osservazione popolare che strappa l’applauso in un dibattito televisivo, della quale potrebbe essere autrice pure Madre, per dire. Vorrei impedirmelo, per tutti i motivi di cui sopra, ma è troppo forte la voglia di dirgli: “Scusami, io regalo, perché di un regalo si tratta, un regalo obbligatorio, ma pur sempre un regalo, 500 euro l’anno, adesso 600 per quell’unico incidente nella vita da risarcire, se c’è, e voi, come se non bastassero tutti i soldi che in 30 anni uno vi ha regalato, fate raddoppiare la rata?”
    Ora ditemi a cosa serviva fare questa osservazione. A niente, tanto si sa che funziona così, però io ladri! gliel’ho voluto dire.
    “Sei libero di cambiare assicurazione se ne trovi una più conveniente di noi.”
    “Cercare è il minimo che possa fare, anche perché tutto aumenta tranne il mio stipendio.”
    Di assicurazioni più convenienti ne ho trovate non una, ma 3 e la più conveniente delle 3 mi fa risparmiare circa 200 euro.
    Mi sento sollevato, più leggero, come quando cancello qualcuno dagli amici di Facebook. Basta poco per interrompere i rapporti. Bisognerebbe ricordarcene sempre, e talvolta non subentra neppure il dispiacere.
    E voi? Quali sono le persone che volenti o nolenti fanno parte della vostra vita e delle quali vi sbarazzereste in un batter d’occhio, se solo poteste? O che già avete gettato nella spazzatura delle ex-amicizie, ex-amanti, ex-assicuratori. Ex-qualcosa, insomma?

    Scrivi un commento →: Ex-qualcosa
  • “Mica l’ho fatto apposta a premere! Cioè sì, ma non sapevo che il finestrino si sarebbe chiuso… Non guardarmi in quel modo! È chiaro che sapevo che, premendo il pulsante, il vetro avrebbe cominciato a salire fino a chiudersi – lo sanno tutti, è così che funzionano i finestrini -, ma non che l’avrebbe fatto sulle tue dita, ecco.”
    Aggressivo come le fauci di un alligatore a dieta da 3 mesi, aggiungerei alle sue risate. Da quando ho scritto della mia amica, che di professione fa l’amputatrice improvvisata, e di quello specifico tentativo di fare pratica sulla mia persona, in macchina, direzione Pescara (per leggerlo clicca qui), attiro inevitabilmente la derisione popolare con la facilità con cui Kobe Bryant centra un canestro. È sufficiente una parola tipo dito o dita (o a essa collegata es: mano è ovvio, ma pure dittatura per dire, che la contiene) a far salire un risolino sulle labbra dell’interlocutore concentrato a nasconderlo, ma io lo capisco subito che ha letto il mio post delle dita schiacciate dalla mia amica. Pensate che Marco ha pure aperto un gruppo su Facebook a cui ha dato l’eloquente nome Le dita schiacciate di Matteo Grimaldi.
    Ebbene, nonostante sia consapevole della pericolosità dell’argomento, mi tocca parlarne ancora perché ci sono degli sviluppi. Ieri mi sono deciso a recarmi dal mio medico di famiglia per chiedere lumi su una pallina misteriosa parcheggiatasi, in data e ora non ben definite, alla base del dito medio della mia mano sinistra, e su un accartocciamento sospetto della pelle del dorso dello stesso dito medio e pure dell’indice.
    Arrivare sul tardi per aspettare di meno funziona quasi sempre, tranne ieri. Il container è affollatissimo di donne scalpitanti tenute a bada dalla simpatica segretaria Gab alla quale, con barbaradursiana espressione contrita, mi rivolgo: “Scusami, non ho preso appuntamento…”.
    “L’appuntamento non si prende più, ti segno nell’elenco” mi risponde mentre aggiunge il mio nome alla fine della lista su un post-it incollato sul bordo del tavolo.
    L’attesa sembra destinata a durare parecchio. Le signore brontolano, sbuffano, guardano l’orologio, riflettono ad alta voce sul poco tempo che la vita riserva. Loro che devono pensare sempre a tutto, a partire dalla cena che bisognerà arrangiarsi perché ormai la Coop sta chiudendo. Qualcuna si destreggia, tentando di coinvolgermi, in ardue operazioni matematiche per calcolare a quando il suo turno. La confidenza di una donna a una donnona impellicciata diventa l’argomento di discussione per tutte loro con l’orecchio teso. La donna non riesce a mangiare la carne di un allevatore di sua conoscenza perché, nonostante l’ovvia genuinità, ha sempre un retrogusto cattivo. Tutte danno il loro contributo.

    Gli animali vanno ammazzati e trattati in un certo modo prima di cuocerli e servirli a tavola. Per esempio, il coniglio, innocuo, piccolo e scattante nelle vaste praterie di Nonna Papera, se non lo lasci per un paio di giorni a ripulirsi, attraversato dall’acqua limpida possibilmente di un fiume di montagna, sa di cacca. Immangiabile così come i suini, che vanno scannati immediatamente dopo il colpo di pistola, altrimenti il sangue non esce nella sua totalità e la carne assume un sapore forte che molti attribuiscono alla mancanza di conservanti, il sapore della carne nostrana che si riconosce, e invece no. Non è vero che la carne sana deve per forza fare schifo. Il retrogusto delicato non glielo danno i trattamenti commerciali che subisce fino all’impacchettamento, ma qualche  fondamentale accorgimento. Le bestie non devono potersi muovere troppo nel corso della crescita. Bisogna allevarle in recinti stretti, perché se no la carne è stopposa e non la tagli neppure con una motosega, e quando mastichi non va giù.

    Io non ho proferito parola e, per tutto il tempo, ho valutato seriamente l’eventualità di diventare vegetariano.
    La pallina è una piccola cisti causata, sembrerebbe, dalla cicatrice che la ricopre, ricordo di bambino curioso al quale non era sufficiente la spiegazione di Madre: “Nella clessidra c’è la sabbia del mare”. No, dovevo verificare cosa fosse la polverina che, capovolgendo la clessidra, scandiva il tempo e così l’ho sfondata con una matita. I vetri mi hanno sfondato il dito.
    “Se la incidiamo, facciamo più danni che altro. Tienitela che magari, all’improvviso, per un’involontaria pressione, scoppia, il liquido si disperde sotto la pelle e te la togli dalle scatole senza intervento. Quelle sul polso una volta si facevano scoppiare con una moneta da 100 lire.”
    La luce sadica nei miei occhi deve averlo convinto ad aggiungere: “Non è che ti ci dai una martellata? Che ti spacchi il dito e la cisti rimane là”. L’ho rassicurato, mentre cominciavano già a materializzarsi i primi abbozzi del mio piano fai da te a cui ho dato il nome Maledetta cisti, esplodi! e che sto mettendo a punto in queste ore. Quando gli ho fatto vedere i bozzetti secchi sull’indice e sul medio, ha detto: “Sembrano dei semplici calli”.
    “No, perché si evolvono. Crescono, è come se qualcosa camminasse piano piano, negli anni, e mi distruggesse la pelle.”
    Ha sgranato gli occhi: “Non ho mai visto niente del genere”.
    Mi toccherà pazientare per una ventina di mesi perché io non c’ho soldi per farmi visitare da un dermatologo nel suo studio privato. Quando arriverà il giorno dell’appuntamento in ospedale, probabilmente avrò perso l’uso della mano sinistra, ma mi consolo. Pensate se fosse stata la destra! Con la sinistra riesco a farmi a malapena il bidet e poco altro… ehm.
    Tanto che c’ero mi sono fatto assegnare un check-up di analisi completo, che sono 3 anni e più che non mi do una controllatina. A casa ho condiviso il responso del dottore con Madre. Naturalmente lei ne sa sempre una più del Dialogo, figuriamoci di un comune medico di base, per quanto bravissimo (il mio non lo cambierei con nessun altro al mondo) e quindi ha sentenziato: “Quello è un cumulo di grasso”.
    “No, è una cisti dovuta alla cicatrice che ha modificato la natura della pelle e…”
    “È un cumulo di grasso. Continua a mangiare così e vedrai quante altre ne spunteranno!”
    “Ma non sono ingrassato neppure di un etto!”
    “Tu no, ma il tuo dito sì, e pure parecchio, mi pare!”

    Scrivi un commento →: [Dottor Madre]

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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