• Cari iscritti al blog, voi che siete attenti frequentatori di queste pagine, avrete notato qualche impercettibile malfunzionamento nella newsletter che, in questi ultimi 2 giorni, s’è messa a inviare email all’impazzata segnalando articoli di 5 anni fa, per un totale stimato di circa 16 inutili notifiche.
    Uno apre l’email, legge: Ciao, hai 16 nuovi messaggi! e pensa: Uh, e di chi mai saranno?! Che sia proprio Claraflora, che ha finalmente deciso di accettare il mio invito a cena, oppure la Sony, che vuole investire sul mio giovane talento cantautorale o chissà, Muccino in persona, che mi vuole come protagonista del suo prossimo film girato a New York… e invece no. Solo quel coglione di Matteo Grimaldi. Esattamente!
    Sono desolato. Mi scuso e mi spiego partendo da un antefatto, perché la newsletter – va detto – mica è pazza!
    ANTEFATTO PER ARRIVARE AL FATTO
    Qualche settimana fa, Splinder, la famosa piattaforma di blogging con oltre 600mila utenti registrati e poco meno di blog creati, pubblica nella homepage un messaggio per nulla rassicurante.

    ATTENZIONE!
    Da giugno non sarà più possibile iscriversi al servizio e acquistare o rinnovare i pacchetti avanzati SplinderPRO.

    Chiude pure Splinder, penso. Comunque a giugno manca ancora un po’, gli utenti avranno tempo e modo di traslocare il proprio blog su altre piattaforme e informare i lettori del passaggio. Non proprio, perché il precedente messaggio è stato rimpiazzato da un altro, del quale sono riuscito a catturare un’immagine, che non lascia scampo.

    Questo vuol dire che già fra qualche settimana probabilmente Splinder cesserà di esistere, o forse no, ma non si occuperà più di blog; si vocifera che commercerà loghi, suonerie e vari ed eventuali servizi per la telefonia.
    Mi dispiace perché.
    – I ricordi partono da una domanda che il mio migliore amico mi pone alle 3 di notte di 6 anni fa: “Tu che scrivi tanto, perché non ti apri un blog?”
    “Ci stavo pensando” rispondo, accompagnando le parole a un coreografico e convincente assenso col capo, prima di tornare a casa e cercare su Google: blog. Se ci pensavo rivedevo Blob, la creatura informe e gelatinosa che, nel film Fluido mortale, si nutre della gente e cresce a dismisura. Il mio primo blog lo chiamo La Stanza del Matto, su DiaBlogando, la piattaforma appartenente al gruppo editoriale RCS; qualcuno se la ricorda? Si poteva scegliere fra 3 soli template. Il mio era dinamico. Nelle ore diurne c’era il cielo azzurro con le nuvolette bianche, dopo le 19 arrivavano le stelle e la luna su sfondo nero. Pensate alla complicazione di dover trovare il giusto colore per il testo che stesse bene con l’azzurro, ma non fosse troppo chiaro per non sparire fra le nuvole, e nemmeno troppo scuro se no, al calare della notte, beato chi legge! Ero felice di far parte di una community fedele, che rifuggiva i grandi numeri delle metropoli fuori per riunirsi la sera davanti a una storia. Un brutto giorno apprendiamo la notizia della prossima chiusura di Diablogando tramite un messaggio lasciato in home dalla redazione, simile a quello che oggi contemplano attoniti gli utenti di Splinder, me compreso. A contare erano le conseguenze. La dispersione, l’allontanamento alla ricerca confusa di un tetto più sicuro; io ho scelto Splinder.
    – Quelli su Splinder sono gli anni in cui la mia vita ha preso una direzione ostinata e lo devo alle soddisfazioni e all’affetto che i lettori di allora mi hanno regalato.

    • Le 500 visite al giorno che convinsero Kimerik a investire sui miei racconti.
    • La prima edizione di ‘Non farmi male’, polverizzata grazie ai lettori del blog.
    • Certi giorni cupi mi chiudevo nella Stanza stretto dalle insicurezze. Decine di commenti davano vita a un’esplosione di meravigliose minchiate, e io riuscivo da lì col sorriso. È stato bello.

    Poi il boato della terra e il buio. L’uscita di ‘Supermarket24’ e i troppi disservizi di Splinder che versava in uno stato di perenne manutenzione – mi faceva aggiornare solo quando lo diceva lui e vi assicuro che Giucas Casella avrebbe dimostrato maggiore generosità – mi hanno convinto a traslocare nuovamente, stavolta su un dominio personale. Ora, da qui, assisto alla sua chiusura con il dispiacere che mi dà l’idea che esista un interruttore capace di spegnere 2 anni di passato.
    IL FATTO DELLA NEWSLETTER MEGALOMANE
    Quegli anni bisognava salvarli. Ho trovato un plugin che faceva proprio al caso mio. Si chiama Splinder Importer e, in poche facilissime mosse, permette di traslocare tutti i post (in ordine di datazione e senza sovrascrivere), commenti inclusi, da Splinder a un’altra piattaforma. Per iniziare al meglio ho distrutto irreparabilmente il template di Splinder, poi  ho chiamato a rapporto il fedelissimo grafico Pino. Mi rivolgo a lui quasi sempre sul punto di non ritorno, con la disperazione alle stelle, come faccio con la Madonna, insomma.
    Facciamo partire l’incorporamento. Neanche il tempo di sperare che tutto stia andando bene, che una mitragliata di segnali acustici mi sussurra delicatamente che stanno arrivando email a tutto spiano. Il mio efficientissimo servizio di newsletter si affannava ad avvisare tutti gli iscritti, un’email per ogni nuovo post incorporato.
    Per fortuna siamo riusciti ad agire in fretta e a disattivare lo script isterico, prima che potesse trasformarsi in un’arma micidiale capace di saturare e far esplodere le vostre caselle di posta elettronica, sentendosi in dovere di notificarvi tutto il vecchio blog e cioè circa 500 post. Adesso è davvero tutto risolto.
    Chiudo cercando di dare al post una valenza socialmente utile. In questa pagina, coloro i quali stanno odiando Splinder con tutte le forze possibili, trovano le indicazioni per traslocare il blog. Splinder Importer è piuttosto intuitivo (se ci sono riuscito io…). Spero che la figuraccia possa servire almeno ad aiutarvi a risolvere le conseguenze del lutto splinderiano.
    Ah, se siete fra i 6 miliardi e 999milioni e 999mila e 982 che non l’avete ancora fatto, cliccate su RESTA AGGIORNATO (in alto) e inserite il vostro indirizzo email nell’apposito campo, riceverete così una notifica (soltanto una, promesso) ogni volta che pubblicherò un nuovo post. Dopo quanto accaduto, voglio vedere chi avrà il coraggio di farlo. Almeno, la prossima volta che mi rivolgerò soltanto agli iscritti, non vi sentirete esclusi.

    Scrivi un commento →: Non cestinarmi! Sono la prima notifica nuova
  • Ieri sera ho ri-scoperto la funzione primaria del mio apparecchio televisivo, che non coincide con quella che gli ho assegnato negli ultimi anni: ripiano su cui sta bene tutto ciò che non trova spazio sul ripiano a esso in precedenza assegnato.
    Qualche esempio e relative minimali argomentazioni.
    – Il giorno del mio compleanno mi regalano 9 peluche. Mettiamoci nell’ipotesi più radiosa che io riesca a sistemarne fra i 4 e i 6 sulla peluche-mensola, ne restano comunque un paio fuori. Che faccio, li butto? No; pure se sono i più brutti dei 9, li metto sulla televisione che danno un po’ di colore.
    – Nella mia stanza i libri continuano ad aumentare, ma non aumenta proporzionalmente la dimensione fisica della libreria. In attesa di poter cambiare stanza o comprare una nuova libreria più spaziosa, sto erigendo colonne di volumi che partono dal pavimento e soffocano l’aria attorno alla televisione, il cui schermo è, per più della metà, oscurato dai libri accatastati.
    – Madre crede fermamente nel periodico svuotamento di Villa Madre dal vecchiume. Stabilire cosa rientra nel vecchiume è unicamente compito suo e decisione insindacabile. Nonostante ciò, non riesce a disfarsi dell’oggettistica accumulata in anni di viaggi (delle sue colleghe) e riversata inizialmente nel nostro salotto, poi sulla mia televisione.
    La collezione, istallata su 2 tavolinetti, è composta di:
    – 3 gondole di ferro.
    – Una scarpetta di Cenerentola in vetro ché, di cristallo, evidentemente costava troppo.
    – 2 torri di Pisa storte, con accanto un alberello dritto, per far notare.
    – Una Tour Eiffel che, se spingi l’interruttore, spruzza una fragranza alla mela verde.
    – Tartarughe di legno di diverse dimensioni e colori, che pare portino anche fortuna: questa la motivazione che avrebbe indotto le rispettive colleghe all’acquisto, quindi molto pensato.
    – Un tulipano di carta tutto stropicciato.
    – Corna e cornetti rossi napoletani.
    – La miniatura in plastica di una cassata siciliana.
    – Un toro di Madrid, sempre in miniatura.
    – Una cabina telefonica londinese.
    – 2 palle (ma 2 palle…) di vetro con dentro la neve che cade sulle regge di non so quali città.
    – Un numero imprecisato di tazze da latte con ritratta la formula vincente: I Cuore Città.
    Quando ho trovato il toro di ceramica di Madrid sulla mia televisione, ho capito che gli oggetti-ricordo di Madre stavano colonizzando il mio spazio, dedicato a quanto di mio uno spazio non ce l’ha, che quindi è diventato uno spazio comune.
    Ieri sera ho spazzato via tutto con una manata, mi sono sintonizzato su RAI1 e ho atteso paziente l’inizio del Più grande spettacolo dopo il week end, il ritorno di Fiorello in televisione.
    L’avete seguito? Vi è piaciuto?
    A me tantissimo. Dal monologo iniziale su Berlusconi e sulle bandane a mezz’asta ad Arcore, al siparietto con la Hunziker sul culetto della Merkel. Dalla partitella a tennis-padella vinta contro Novak Djokovic, ai duetti con Giorgia, alla quale bisognerebbe impedire di non cantare dal vivo, tanto è brava, e Giuliano Sangiorgi, al quale consiglio di mangiare qualche etto di pasta in meno.
    Io, che sono un fan della normalità, dello show vecchia maniera, non vi nego che ormai ci avevo rinunciato. Sono stato felicissimo di essere smentito da oltre 3 ore di risate di cuore, quelle risate roboanti che ti partono da dentro ed esplodono.
    I 10 milioni di spettatori con picchi di 12, con quasi il 50 per cento di share, dimostrano che noi non siamo l’Italia che ci vogliono far credere, che noi il Grande Fratello non vogliamo sapere neppure più che cos’è. Mi spiace per Alessia Marcuzzi, che è anche simpatica e ci sta rimettendo la faccia, ma che la smettano di propinarci una televisione che insulta la dignità umana. A me piace la televisione di ieri sera. Uno show pensato, scritto, costruito, non un reality show (perché la reality di 4 burini dovrebbe meritare le telecamere nazionali?), preso in mano dall’unico grande showman che ci rimane, capace di reggere 3 ore di spettacolo incredibili, senza registrare un solo momento di calo: Fiorello. A voi viene in mente qualcun altro?

    Scrivi un commento →: Il più grande spettacolo dopo il weekend
  • Sull’autostrada, in un istante qualunque del 90esimo chilometro di 170, dall’oscurità del cruscotto affiora una lampada di Aladino rossa che mi fissa. Quando si accende la spia dell’olio è la fine degli eventi. L’ho imparato da mio padre prima ancora che ad andare in bicicletta: tutto quello che puoi fare è fermarti sul posto e metterti a piangere. Parcheggio nella prima piazzola d’emergenza; spengo la macchina; mi domando pacatamente per quale ceppa di motivo non l’ho fatta controllare qualche giorno prima di partire; asciugo un paio di mila lacrime con un fazzolettino di carta coi lamponi disegnati che puzzano di lampone, l’ultimo ritrovato di Madre; chiamo il numero verde di Autostrade per l’Italia. Un ragazzo che parla come chisifermaèperduto, mi illustra i vantaggi di possedere un telepass ricaricabile al giorno d’oggi. Per esempio posso attivare l’opzione Telepass Premium con Sky. Prima di lasciarmi proferire parola, ci tiene a ribadire che Autostrade per l’Italia è sempre dalla parte di chi guida. Io gli spiego che ho un problema e quale. Mi fa notare che quello è il numero verde per avere informazioni commerciali e che, a quel punto, mi conviene prenotare subito il mio telepass ricaricabile, se non voglio perdermi la promozione di una tratta autostradale a mio piacimento gratuita. Gli suggerisco di non insistere perché l’umore di una persona ferma in autostrada, con la spia dell’olio fissa, a mezz’ora da una presentazione letteraria a 80 chilometri di distanza, non è tipico di chi può essere incline ad acquistare un telepass. Dopodiché gli chiedo di fornirmi un numero al quale risponda qualcuno che possa offrirmi una forma di aiuto efficace, tipo segnalarmi l’area di servizio più vicina a me.
    “Houston, mi ricevi? Abbiamo un problema!”
    Compongo il nuovo numero e mi risponde lo stesso del telepass ricaricabile, che adesso però è pronto ad aiutarmi perché quello è proprio il numero delle informazioni autostradali. Indeciso se mettermi a ridere o rimettermi a piangere, ascolto lui che chiama a rapporto tutti i suoi colleghi in stanza.
    “Se ‘o facciamo uscire a Fiano Romano, dopo ‘na decina de chihommetri trova er benzinajjo.”
    “Ma a Fiano questo manco c’ariva, te ‘o dico io!”
    “Allora famolo proseguire sulla E-45!”
    Torna a rivolgersi a me: “Senta, ma a quale chilometro sta lei? Vada vicino a uno dei mattoncini neri, ar bordo da’a careggiata e legga ‘mpo’!”
    “Sì, è dall’altra parte, aspetti che attraverso…”
    “Aho, ma che fa! Non s’attraversa a piedi in autostrada!”
    “Lo so, ma come glielo dico il chilometro se da qua non lo leggo?”
    “Non ‘o so, faccia lei, ma non attraversi! Ci siamo capiti.”
    “Sì, ci siamo capiti.”
    Quindi attraverso; comunico il chilometro; ri-attraverso e torno al sicuro in macchina.
    “Prosegua 12 km a 30 all’ora che se no brucia er motore. All’area de servizio se faccia rimettere ‘na tanichetta d’olio. Ma come se fa co’ gente come lei!”
    Un litro d’olio = 28 euro.
    “La settimana prossima portala a fare il tagliando, se no fra poco la puoi buttare!”
    Certi benzinai sono un faro nella nebbia. Ti scordi dell’esistenza del tagliando e, visto il costo, vorresti continuare a scordartene e a macinare chilometri senza che ti accada mai nulla, poi arrivano loro e ti ricordano che la vita è una continua manutenzione e che dovrai regalare metà dello stipendio di novembre al tuo meccanico di fiducia, che tanto ti frega uguale.
    Al centro storico di Orte si arriva da una salita con 2 grandi parcheggi, a uno dei quali è bene fermarsi se non si vuol rimanere incastrato in una viuzza larga meno della propria automobile. Il borgo guarda tutti dall’alto di una collinetta, come un presepe sollevato.
    Giuseppe mi trova, per fortuna prima di un’equipe di soccorritori della Croce Rossa, mentre vago in stato confusionale svoltando ora di qua, ora di là, ormai giunto, non so come, a un metro e mezzo dalla libreria, senza però vederla. Ci salutiamo, mi presenta la sua compagna Stefania, ribattezzata poi la libraia timida perché, quando qualcuno la guarda, lei smette di parlare e il volto le si colora di rosso come per un’esplosione sottocutanea. Il centro della scena la terrorizza, ma quando si tratta di consigliare un libro non la batte nessuno. La libreria è stupenda. Rispecchia l’idea che ho io di libreria: piccola, accogliente, fornita, con dietro il bancone una libraia timida capace di ricordarsi, che so, il libro che sfogliavi quel giorno di 3 settimane fa, lo dice alla/lo tua/o ragazza/o che te lo regalerà per il compleanno.
    Sono arrivato, posso finalmente riposarmi le membra. Sto per sedermi quando Giuseppe in allarme grida: “Fermooo! Quello è il tavolino!”
    Resto immobile, a metà fra l’in piedi e il seduto.
    “Non tanto per il tavolino, quanto per i vetri nel culo!”
    Quale modo migliore per presentarmi se non quello di scambiare un tavolinetto minimal di vetro per uno sgabello di design?! Se ci penso, ancora rido.
    Il pubblico si dimostra appassionato e partecipativo: ho avuto l’impressione che fossero felici di trovarsi lì, a passare un paio d’ore in mia compagnia. Tante domande e tante vite che inevitabilmente si raccontano a me che le ascolto.
    Cose che ci tornerei anche domani:
    – 3 bambini, in fila uno dietro l’altro, per farsi fare una dedica da me.
    – Le signore e i loro complimenti: sono dolcissime.
    – I signori, che mandano sempre avanti le mogli.
    – Giuseppe e Stefania. Ci siamo dati appuntamento a presto per una gita, senza libri né presentazioni di mezzo.
    – La penna di piuma nera donatami da Giuseppe e Stefania per firmare le tante copie (ma che bello!) che adesso spicca nel portapenne sulla mia scrivania.
    – Il tiramisù della locanda dove abbiamo cenato.
    – ‘Una valigia tutta sbagliata’ in vetrina, fra il nuovo di Baricco e la biografia di Steve Jobs, con Murakami Haruki alla fine della fila.

    Scrivi un commento →: Presentazione a Orte: tutto è bene quel che finisce bene, ma quanta paura!
  • Veloce veloce prima di imbustarmi e sigillarmi nel piumone verde smeraldo. Cosa sono quelle facce, siete forse invidiosi del mio piumone? Domani mi aspetta una giornata che a paragone il palindromo è Pisellino.
    – Sveglia alle 7.
    – Lavoro fino alle 14.30, spero 14: forse mi sarà concesso di beneficiare di mezz’ora di permesso. Vedo un barlume di luce, ci voglio credere.
    – Trucco, parrucco e partenza per Orte dove alle 18, presso la libreria il Gorilla e l’Alligatore, si terrà l’incontro per presentare ‘Una valigia tutta sbagliata’ del quale potete vedere la bella locandina, soltanto una delle millemila cose che Giuseppe e Stefania della libreria hanno fatto per me e che ho provato a raccontare qua.
    E per me, e questa serata, hanno fatto molto:
    – Sololibri.net, che mi ha dedicato un sacco di spazio. All’interno della stessa pagina trovate prima l’articolo con tutti i dettagli per non sbagliarvi, e poi l’intervista che mi ha fatto Rachele Landi (clicca qui).
    – Viterbo Oggi, che ha intasato la sezione Cultura con questo paginone.
    Ci rileggiamo domenica sperando che, sperando che e pure sperando che 170 chilometri in mano a un navigatore… io speriamo che me la cavo!

    Scrivi un commento →: [VIII] Weekbook. A Orte io speriamo che me la cavo!
  • Oggi è un giorno che i superstiziosi di tutto il mondo trascorreranno aggrovigliati a millemila amuleti portafortuna, intinti nel sangue dei santi draghi protettori. Alle ore 11, 11 minuti e 11 secondi di oggi 11 novembre 2011 (anzi, dell’11/11/11), si realizzerà un lungo palindromo del numero 1. È accaduto solo un’altra volta nel Medioevo, l’11 novembre 1111, e non capiterà mai più.
    Il giorno palindromo è una data del calendario che, scritta con la formula giorno/mese/anno, ha una perfetta simmetria nella lettura, ovvero si può leggere sia da sinistra verso destra sia da destra verso sinistra. Credenze millenarie ci raccontano che questi giorni dal particolare fascino sono stati e saranno propizi all’accadimento di fatti straordinari, spesso e volentieri catastrofi.
    Ricordiamoci qualche 11 che ha segnato la nostra Storia.
    – L’armistizio della Prima Guerra Mondiale fu firmato all’11cesima ora, dell’11esimo giorno dell’11esimo mese del 1918. Ha dell’incredibile, ma è così.
    – Le Torri Gemelle, che somigliavano a un 11, furono attaccate il giorno 11 e il primo aereo che colpì il World Trade Center fu proprio il volo 11.
    – Fu l’Apollo 11 a portare i primi uomini sulla Luna.
    – Il recente terremoto del Giappone si è verificato anch’esso il giorno 11.
    In particolare, il palindromo del numero 1, sembra che sia in grado di mettere in contatto gli uomini con il mondo del soprannaturale. Andiamo bene!
    E allora oggi che si fa? Molte sono le attrattive da non perdere. Io sto per partire. Destinazione il monte Uritorco, 800 km a nord di Buenos Aires, sulla cui cima, per l’intera giornata di oggi, si spalancherà una porta cosmica che permetterà ai curiosi di farsi una passeggiata in un’altra realtà. Cercherò di tornare prima della mezzanotte, se no la porta si chiude e arrivederci e grazie tante. A meno che non dovessi trovare l’altra realtà migliore della nostra, eventualità che, alla luce di quanto sta accadendo, considero non così lontana. In tal caso resterò là dove sono finito, almeno di sicuro nessuno mi tartasserà con la storia del debito pubblico, dello spread, della Borsa che scende e scende come una trivella nel sottosuolo, della tasse che nessuno paga e son tutti indignati (siamo proprio un popolo curioso noi). Buenos Aires… arrivooo!
    Se, per recuperare qualche spicciolo, avete deciso di annullare tutte le vostre vacanze per i prossimi 11 anni, anzi no, facciamo 10 che di 11 in questo post ce ne sono pure troppi – non vorrei che mi esploda il computer fra le mani – allora sarete costretti ad assistere all’evento catastrofico che il palindromo farà abbattere sul nostro territorio nazionale. L’Italia non vuol’essere da meno in quanto a calamità naturali e allora quale migliore data per festeggiare l’uscita del nuovo album di Laura Pausini? Non è proprio quella che si definisce una notizia bomba, visto che ci stanno scassamontando i maroni da 19 mensilità. Laura Pausini evidentemente è ben consapevole della drammaticità del fatto, anticipato dal singolo di lancio Benvenuto, dedicato al giorno palindromo, che darà il via a una catena inarrestabile (se non col tasto STOP) di sconvolgimenti prima italiani poi sudamericani.
    – La gente prenderà a strapparsi le orecchie apparentemente senza motivo, e tenterà di strappare pure quelle dei passanti vicini, nella convinzione di salvarli. Proteggete le vostre orecchie!
    – I muri delle costruzioni, dalle più recenti alle più antiche, si apriranno impotenti alle note corrosive della Pausa, che penetreranno attraverso grandi squarci fino a raggiungere coloro i quali erano certi che in casa si sta al sicuro. Quando accadrà, vedrete che si strapperanno le orecchie pure loro.
    – Gli animali di quartiere impazziranno in una sinfonia di versi urlati al cielo. Faranno cacche e pipì dappertutto e senza controllo. Un cagnolino, fino a quel momento bravo e fedele, è stato persino udito fare delle dichiarazioni nella nostra lingua in merito a un tiggì che lascerà. I pompieri l’hanno salvato dalla cima dell’albero su cui si era arrampicato (un cane arrampicatore), rassicurato e poi imbottito di calmanti per elefanti. Solo allora l’hanno riconosciuto, si trattava del povero Emilio Fede, se qualcuno se lo ricorda.
    – Italia1 dedicherà alla catastrofe uno speciale condotto dall’esperto di disastri televisivi Enrico Papi, in cui sarà ospite la cellula maligna da cui è partito tutto: Laura Pausini che verrà in quell’occasione imprigionata in un camerino abbastanza capiente da contenerla (lei non lo sa ancora), e subirà un trattamento guaritore che consiste nell’abbuffarla forzatamente di pizze fritte e prosciutto crudo San Daniele per un anno al termine del quale, la rockstar che tutto il mondo ci invidia, si guarderà allo specchio e si farà rinchiudere in un manicomio criminale.
    L’avrete capito, ci aspetta una giornata complicata. Armiamoci di coraggio, che ci aiuti ad affrontare le nostre consuete sfighe quotidiane destinate oggi a un incremento incontrollato – non oso chiedermi cosa accadrà fra un’ora che ho appuntamento per un preventivo sull’assicurazione della macchina – e scassiamo tutte le radio che abbiamo in casa.
    E voi? Come siete messi? Che avete da fare oggi? Già si è abbattuta la tegola del palindromo sulla vostra testa? Cerchiamo di raccoglierci in questo bunker antisfiga e prendiamoci per mano. Facciamo tipo scarica barile: passiamocela, ché la sfiga più la condividiamo e meno male fa.

    Scrivi un commento →: Benvenuto 11/11/11 (ma anche no)!
  • La lista dei desideri o, come va di moda chiamarla oggi, wishlist, sia che si decida di renderla pubblica su un blog o sul frigorifero della cucina, sia che la si aggiorni intimamente, si evolve soprattutto attraverso le esperienze. Quella di Madre è stata resettata e riscritta da una notte indimenticabile, che non sarebbe neanche giusto dimenticare, se fosse possibile.
    “Voglio una casetta di legno in giardino, almeno dormo tranquilla, anzi dormo, ché in questa casa non chiudo occhio da una settimana.”
    Un desiderio che è un bisogno. Questa casa, come se la disprezzasse, invece la temeva soltanto. D’altronde non può che amarla, dopo tutti i sacrifici fatti per acquistarla, il sangue di un padre che costruisce il futuro delle proprie figlie: Madre e le sue sorelle.
    Le notti dopo il terremoto, dormire in casa non era sicuro e non si poteva. Per mesi siamo stati costretti, come tutti gli aquilani rimasti in zona, a dormire nella tendopoli. Ne hanno allestite di grandi e di più modeste, comunque tutte affollatissime. La tendopoli è una realtà a sé; seppur indispensabile, una brutta realtà. Se a qualcuno fosse venuta la sadica idea di piazzare telecamere nascoste, adesso staremmo parlando del più grande successo televisivo di tutti i tempi. Una sorta di Grande Fratello nel quale la violenza verbale non è solo un pretesto per far parlare di sé, ma un’esplosione inarrestabile, seguita a ore, giorni di autocontrollo indotto dalla propria dignità di uomini, che osservano e contano quello che hanno perso: più o meno tutto. Il terremoto dice: “Banco e carta!”, pesca la Matta e fa 7 e mezzo. Il banco era casa tua, la tua città, la tua vita che non c’è più, che quindi non puoi riprenderti.
    Nella tendopoli si respira aria di prigionia, si ha la sensazione di essere stati catturati e messi in un grande recinto disseminato di cucce, a convivere con troppe specie di animali pericolosi, facendo appello solo al proprio equilibrio sul filo del rasoio. Si può litigare in modo furibondo pure per una presa elettrica – furibondo vuol dire arrivare alle mani – o per il baccano di un bimbo che non ti permette di riposare, su una delle 4 o 6 lettighe all’interno della tenda. Sulle altre dormono estranei, vicino a te, su ogni lato. Non li vuoi conoscere, non ci vuoi parlare; non che tu non sia un essere socievole, ma ti senti derubato, in qualche caso finito, incapace persino di una stretta di mano. Poi la vita dà l’ennesima dimostrazione di quanto sia sempre così facile per lei sovrastare morte, distruzione e silenzio. Senza farci caso, rinasce un inaspettato sorriso proprio dalle strette di mano, davanti a una grigliata di arrosticini che buoni come li facciamo noi nessuno al mondo, insieme a sconosciuti che all’improvviso son più che amici. Ti importa come stanno, come hanno passato la notte, ti metti in porta, fra due birilli della protezione civile, mentre i loro bambini cercano di farti gol.
    La situazione si è normalizzata – mi fa sorridere l’uso del termine per indicare un momento della mia vita che di normale non aveva neppure il bagno: una scatola rossa con un cuore adesivo sulla porta, dalla quale passavano centinaia di persone al giorno. A quel punto gli aquilani sono diventati ospiti sgraditi pure nelle tendopoli. Bisognava rientrare nelle case, chi ce le aveva, per forza. Non importa la paura della notte, non importa l’imprevedibilità e i rischi così a ridosso dell’evento più catastrofico della nostra storia di città. In tendopoli non si poteva più stare, cacciati direi.
    Io sono andato a Firenze, scappato direi, perché bisogna essere onesti con le parole. C’erano 2 cuori grandi pronti a ospitarmi, gli amici ti salvano la vita. Un lavoro non ce l’avevo più, per il momento. Da grande egoista ho deciso di aggrapparmi all’illusione di lasciare la mia disperazione a L’Aquila. I miei genitori sono tornati a dormire in casa, ma Madre proprio non ce la faceva. Nelle telefonate la sentivo sempre più stanca e, attraverso il suo tono di voce rallentato, vedevo la rassegnazione e le occhiaie. Finché non ha deciso per la casetta, che era sì la soluzione al suo sonno, ma anche un modo per ricostruire qualcosa.
    Ricordo le prese in giro:
    – Una casetta di legno… dai, ormai il peggio è passato.
    – Una casetta di legno è una spesa inutile.
    – Ci è crollata una casa, ma abbiamo questa. È assurdo ritrovarsi una casa in buono stato e non dormirci.
    – Dobbiamo vincere la paura, nel rispetto di chi una casa non ce l’ha più.
    – Che dobbiamo farci con una casetta di legno?
    Madre se n’è fregata, quella casetta l’ha voluta a tutti i costi. Nient’altro che 3 stanzette da letto, perché il terremoto arriva di notte. Senza servizi, senza gas. Solo una stufetta che la scalda in un attimo, tant’è piccola.
    I miei genitori ci hanno dormito per più di un anno. Io sono tornato a L’Aquila e in casa quasi subito. Quando sono rientrati pure loro, la casetta è diventata una piccola baita nella quale ospitare gli amici a Capodanno o quando, da lontano, vengono a trovarmi. Da qualche settimana sono ricominciate le scosse, poche, costanti, che tolgono il fiato. Siamo tornati in casetta. Non che debba succedere qualcosa, per carità, però dormiamo meglio, più vicini. Pure se all’improvviso fa freddo, è un bel freddo. Stanotte una nebbia densa ricopriva tutto. La mia è una zona molto umida. Mi sono fermato sulla porta di casa, nel silenzio e nel freddo. In pigiama, col giaccone e le pantofole, ho guardato in direzione della casetta. Mi son sentito sollevato all’idea di trovarla, fra la nebbia. Una sicurezza vicina, che ho raggiunto in pochi passi.
    Devo ringraziare Madre per aver insistito così tanto sulle nostre riserve, che lasciavano intravedere una forza solamente apparente. Devo ringraziarla per la sua idea di famiglia, che non è facile spiegare, ma è facilissimo imparare vivendo con lei.

    Scrivi un commento →: [Madre Wishlist]
  • In Italia un libro non va più bene neppure per dare stabilità a un tavolo traballante. Figuriamoci se “noi” della Einaudi, per celebrare l’uscita dei primi 2 volumi di IQ84 di Haruki Murakami, da oggi in libreria, potevamo pensare di realizzare una copertina così.

    Scrivi un commento →: IQ84 – Today is the day
  • A un paio di palazzi dal mio, vive una donna sottile come il tubo di un termosifone e con sulla testa filamenti rossastri al posto dei capelli. Nella vita ha combinato un sacco di guai, che la vita gliel’hanno rovinata. Si potrebbe dire che se l’è rovinata da sola, ma non sarebbe del tutto vero. Per rovinata intendo condizionata senza rimedio, come una malattia cronica. Il suo passato sbagliato pesa sul presente e sul futuro; tutto quello che può fare è tentare di vivere con dignità i giorni faticosi ai quali i suoi errori l’hanno destinata. I grandi educatori la prendevano a esempio quando si trattava di spiegare ai pargoli cosa non fare, la minaccia da cui scappare ché, se non ti fossi comportato in un certo buon modo, saresti diventato come lei. Io non sono diventato come lei, né come nessuno. È questione di personalità o mancanza di personalità, mixate in una bomba di esperienze, non-amicizie, serate che diventano nottate, che finiscono all’alba e finiscono male.
    Non è cattiva. Da bimbo ero convinto del contrario. Da bimbo associavo l’azione sbagliata all’animo malvagio che l’aveva compiuta. Così mi è stato insegnato. D’altronde, chi potrebbe fare del male, se non una persona senza scrupoli? Crescendo mi sono accorto che esistono strati e strati di motivi da esplorare, prima di condannare qualcuno a una vita di lavori forzati per un errore inconcepibile (per te che non sei come lei). Che quello sforzo di comprensione va fatto, non possiamo sempre cavarcela stabilendo una distanza di sicurezza dal male. Bisogna entrarci dentro, superare i propri limiti nel tentativo, seppur vano, di capirci qualcosa.
    Si può sbagliare senza volerlo, facciamocene una ragione. Si può sbagliare senza caricare le proprie azioni della volontà reale di ferire. Possiamo combinare grandi guai senza averlo prima pianificato. Ahimè sì. Per caso, per cattiva sorte, per un’ingenuità. Talvolta i nostri sbagli sono solo il frutto di una forza non pervenuta al momento decisivo: la forza di scuotere la testa, fare spallucce e camminare a testa alta nella direzione contraria. Questa è l’unica colpa che le riconosco, seppur mi risulti difficile considerare colpa una mancanza di forza. Non ha saputo reagire agli eventi che l’hanno messa alla prova. Ha toppato tutte le sfide. Non ha saputo tirar fuori, in gioventù, quella stessa energia che a 50 anni la distingue da chi pare già mezzo morto. Non sto dicendo che i suoi errori siano serviti a qualcosa, però è vero che è diversa dagli altri. Quando l’ascolto affrontare una questione penso sempre che lo fa nel modo migliore, con le parole giuste, le scelte più opportune e mi domando ogni volta se è davvero la stessa persona protagonista di tutti quei brutti giorni. Non voglio ripetere che scendere all’inferno fa crescere, perché non ci credo, perché dietro le fiamme da lei accese e alimentate in molti non riusciranno a perdonarla per averli fatti diventare come lei. Ieri mi ha fermato per strada.
    “Matte’, ti posso parlare un attimo?”
    “Certo!”
    “Tu che sei uno scrittore devi fare una cosa per me.”
    “Che cosa?”
    “Devi farmi scrivere una frase sulla lapide.”
    “Ti prego! ‘Ste cose portano una sfiga immensa e va a finire che muoio prima io di te.”
    “Te la devi segnare. Adesso!”
    “Ah, ce l’hai già pronta? E allora a che servo io?”
    “Servi perché i miei parenti di sicuro si rifiuteranno, ma tu devi insistere!”
    “Sentiamo!”
    “Dal marmo bianco della mia lapide deve emergere a caratteri grandi, dorati e in stampatello soltanto la seguente scritta: VE L’AVEVO DETTO CHE MI SENTIVO POCO BENE.”
    Ho cominciato a ridere, ma ridere tanto. Mi mancava il fiato dal ridere e rideva pure lei. Piegati coi lacrimoni.
    “Almeno, quando la gente passerà davanti alla mia tomba, si farà una bella risata.”

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  • Questo post, oltre a segnalarvi la mia prossima presentazione, vuole essere una dichiarazione d’amore sconfinato a una piccola libreria indipendente di Orte, il Gorilla e l’Alligatore. Stefania e Giuseppe si danno da fare (a suon di grida di gorilla e di… com’è che fa il coccodrillo? Non c’è nessuno che lo sa), per promuovere i buoni libri, consigliarli ai lettori, organizzare incontri con gli autori, costruire e coltivare col lettore un rapporto di amicizia e fiducia, e di complicità con gli autori. Se eravate ormai certi che il libraio indipendente di una volta, quello che si ricorda l’ultimo libro acquistato dal signor Verdi e quindi saprà cosa consigliargli, appena lo ritroverà fra gli scaffali assediato dal dubbio, appartenesse a una razza in via d’estinzione o addirittura estinta, sarete felici di scoprire che vi eravate sbagliati.
    Giuseppe e Stefania decidono di rilevare un piccolo locale nel centro storico di Orte e ristrutturarlo secondo criteri ecocompatibili, arredandolo con pannelli, scaffalature e mobili in legno, dipinti esclusivamente con vernici all’acqua. Nell’agosto del 2009 inaugurano la loro libreria. A gennaio dell’anno successivo esce ‘Supermarket24’ e con Giuseppe ci promettiamo di ritrovarci un giorno a presentarlo nella sua libreria. Le vicissitudini, gli impegni dall’una e dall’altra parte, il tempo che non si ferma ad aspettare, hanno fatto sì che passasse più di un anno.
    Nel frattempo ho pubblicato ‘Una valigia tutta sbagliata’ e allora, sabato prossimo, presentiamo quello, con una capatina fra gli scaffali del mio pericolosissimo supermarket, promesso.
    Agli inizi del mio percorso, riuscire a organizzare una presentazione mi pareva un mezzo miracolo. Ricordo le espressioni disgustate dei librai che declinavano la mia proposta perché troppo impegnati ad allestire le vetrine con montagne di bestseller o presunti tali. Facciamo fatica, noi semisconosciuti, ad arrivare alla gente. Non siamo quasi mai sostenuti dalle librerie, che rischiano la chiusura un giorno sì e l’altro pure, pertanto devono concentrarsi su quel poco che si vende (dicono loro). La verità è ben diversa e un giorno ne parliamo, altrimenti non si spiegherebbe l’esistenza di librai come Stefania e Giuseppe che non si limitano a invitarmi a presentare Una valigia tutta sbagliata, ma lavorano affinché l’evento vada in porto nel miglior modo possibile e col migliore successo possibile. Stampano locandine e volantini, fanno un bel rifornimento di Valigie e Supermarket, allestiscono il Grimaldi-corner, che vedete ritratto in foto, per “preparare i lettori all’evento” e, cosa fondamentale che ho molto apprezzato, m’invitano a cena.
    “Non puoi dire di no perché da noi si mangia bene e tanto!”
    A quel punto c’è mancato poco che mi mettessi a piangere. Per chiunque abiti o dovesse trovarsi nei paraggi di Orte che sta in provincia di Viterbo – pure da Roma si fa presto, col treno è un attimo – l’appuntamento è per sabato prossimo 12 novembre alle ore 18 presso la libreria il Gorilla e l’Alligatore in via Giacomo Matteotti 41, nei pressi del Municipio e del Duomo. Vi aspetto.

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  • Non sono certo di possedere gli strumenti necessari a ingabbiare, fra paragrafi di parole, il flusso dei pensieri delle ultime settimane. Ogni giorno perdo un pezzetto d’immortalità. Il tempo che passa significa che ne avrò davanti sempre meno. È così, come l’acqua che al livello del mare va in ebollizione a 100 gradi o la regola della mosca schiacciata: ne arriverà un’altra e un’altra ancora, quindi lascio che m’infastidisca e amen. Questo scorrere inarrestabile dà ai giorni futuri un valore maggiore, direi ogni ora in più.
    Sono ancora capace di vivere come un tempo? Vivere vivamente.
    La mia piccola età gioiva della vita, l’assorbiva con naturalezza e, con la stessa naturalezza, la riproduceva. Produceva vita dalla vita. La lingua raccoglieva il sugo degli spaghetti aggrappato alle labbra. Neppure una bomba sulla casa del vicino avrebbe potuto disturbare il tempo del godimento. Questo vuol dire godersi la vita, mica fare chissà che. Assaporare il gusto della felicità senza che altri pensieri la sporchino. Non sapevo di riuscirci né sapevo che a un certo punto non ci sarei riuscito più. La felicità è più che raggiungibile. Altro che approdo lontanissimo del quale neppure riusciamo a scorgere la terraferma, a bordo della nostra personalissima zattera in tempesta. La felicità è il sughetto sulle labbra; la sabbia e i sassolini trasportati dall’onda, stritolati da due manine ciccione, mai stanche, per ore sotto il sole; ridere pensando solo a ridere. Una giornata intera passata insieme, coi cellulari spenti e gli abbracci frequenti in una città bellissima. Un pranzo con Madre che spiega dettagliatamente la ricetta del giorno modificata. Il timo e il dragoncello non ce li aveva. Ignorava persino l’esistenza di queste strane spezie.
    “Cosa ne vuole capire la Lambertucci di cucina?”
    E allora che male c’è a modificarle un po’; Madre sì che sa cucinare. Un film al cinema assieme a tutta la banda del quartiere, gli stessi ai quali ho portato via la palla perché a un certo punto mi sono accorto di non essere più al centro dell’attenzione. La palla è mia, si gioca grazie a me. Non si gioca più visto che. La pizza col prosciutto crudo all’alimentari, meta di una lunga camminata, con la mano nella mano di mio nonno. Quel sapore non l’ho più rincontrato, come pure nonno. Non ci riesce proprio a lasciarmi andare da solo; c’è il suo zampino pure nei brividini di adesso, lo so.
    Posto che quella lì e cose così a 10 anni, a 12, a 15, a 18, a 24 erano felicità,  sarò capace di ritrovarla ancora, proprio perché saprò riprodurre quel vivere vivamente? Vivere senza paura, potrei dire. La paura d’altro, di dover soffrire senza sbagliare. A trent’anni ho smesso di assaporare il momento, perché quei pensieri che parevano così lontani adesso sono tanto vicini da appartenermi, mescolati alle cose dei grandi, alle cose brutte dei grandi.
    I giochi nel piazzale di casa con “quelli dell’altra parte” son diventati i libri nella camera da letto, da solo. Un libro e la solitudine: il binomio perfetto per dire addio alla purezza e all’innocenza della mancanza di paure. Ho aperto gli occhi dopo una vita di sogni. Ho camminato a piedi scalzi per sentire l’erba solleticarmi; non ho mai pensato ai vetri rotti sparsi da chi o da cosa. Altrimenti sarei rimasto immobile, sul mio quadrato di terra che conosco a memoria, a guardare i giorni con la malinconia di chi sa che non riceverà una sorpresa. Invece sono arrivato al fiume. Mi sono accomodato sulla pietra che immaginavo proprio così, non troppo appuntita e tiepida; ho infilato gradualmente i piedi nell’acqua gelida di novembre.
    Adesso.
    – Ho paura di morire di freddo.
    – Ho paura di morire dissanguato per i vetri.
    – Ho paura di morire da solo.
    – Ho paura di morire per colpa di un male che non dà sintomi.
    – Ho paura di morire senza aver più vissuto vivamente.
    – Ho paura di morire pure mentre succhio il ragù di uno spaghetto al dente, come piace a me.
    Pensieri d’ospedale. Ci vado a trovare un’amica; c’è finita per un insopportabile dolore allo stomaco che non era un semplice mal di pancia. Dopo 12 giorni passati con un ago infilato nel braccio, a contare le bollicine che dalla sacca scendono attraverso il tubicino trasparente, sta meglio. Ieri ha potuto bere un bicchierone di carta di tè al limone caldo e inzupparci 4 fette biscottate integrali. Ho imparato molto da ieri. Si può essere felici anche solo di un tè al limone e di 4 fette biscottate integrali.

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sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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