• Scrivo da Firenze. Finalmente una settimana di ferie, in realtà sono undici giorni, fra l’altro quasi finiti, o finiti già, visto che mercoledì torno al lavoro. Intanto fatemi dire che un treno regionale come quello che da Roma mi ha portato a Firenze, nessuno mai. Un viaggio in cui fila tutto liscio, in cui non mi ritrovo nessun puzzone (qua ci starebbe bene una specificazione geografica che ometto se no mi date del razzista, ma è noto il popolo dei puzzoni, no?!) seduto a fianco. Un viaggio in cui ad un certo punto ho avuto persino un miraggio che non era un miraggio, e questo è ancora più straordinario. Ebbene, sul regionale delle tredici e zero cinque Roma Tiburtina – Firenze Santa Maria Novella, immediatamente sotto ai cestini, indovinate un po’, c’erano due prese elettriche. Ne ho approfittato come… come… come un approfittatore, ecco. Ho attaccato telefono e pc e via a scrivere che è una meraviglia, mentre la batteria del mio telefono settennale cercava di assorbire quelle poche energie che riesce a trattenere. È peggio di una bisaccia consunta. Ci manca solo che riesca a scaricarsi ricaricandosi.
    Sì, ok, è ora di cambiarlo. Non da oggi, da almeno un paio d’anni. È che io sono un ragazzo all’antica e l’acquisto del telefono per me è un momento importante, da ricordare, una spesa da ponderare attentamente. E allora tendo a far coincidere momenti così importanti, da ricordare, una spesa da ponderare attentamente, con una ricorrenza, con Natale, con un giorno particolare in cui farmi o farmi fare un regalo. Non ridete troppo, ma pensavo alla mia laurea.
    Considerati gli ultimi accadimenti, direi che la laurea viene posticipata da una data da destinarsi ,già molto lontana, certo, a una data ancora più indefinita e indefinibile, fuori dal tempo e dallo spazio, una data che se poco poco i Maya c’hanno seppur a culo, azzeccato, non sarà mai da nessun essere umano festeggiata. Sicché il cellulare va comprato prima del 21 dicembre 2012. Nelle prossime settimane passerò da Mediaworld e pescherò in uno di quei cestoni di cellulari a diciannove euro, col fiocco blu e rosso sulla scatola. Unico imperativo: evitare quelli con gli sportellini. Non che funzionino male, anzi, però sette anni di apri e chiudi son faticosi eh. Tutti quei secondi risparmiati, forza nelle mani da destinare ad occupazioni magari più piacevoli. E qui chiudo.
    Ah, volevo scusarmi con i passanti di via dell’Oriuolo. Giovedì sera ho dato vita ad uno spettacolo terrificante, anzi no, t-e-r-r-i-f-i-c-a-n-t-e. Riso alla zucca per cena, tre bottiglie di vino novello in quattro, due negroni al bicchiere delle lemonsode, quello della coca cola 0.5 per dirvi, che rifiutare era impossibile, visto che costavano tre euro e cinquanta l’uno. Un cocktail micidiale che ha fatto di me un corpo malandato e piagnucolante che vomitava fuori al Foco. Notata la colorazione rosso tramonto del liquame viscerale, il tipo del locale, mentre gettava secchi di acqua sul marciapiede: “Ma cosa avete mangiato?!” e io, schizzando bavetta qua e là: “Riso alla zucca!” e scoppio a piangere. Non riesco a capire perché quando mi ubriaco di brutto piango. Luca ha realizzato un video del quale ho acquistato i diritti per ventitremila dollari. Anzi, lo ringrazio per aver abbassato la cifra, in funzione dell’amicizia fraterna che ci lega. Grazie eh! Comunque l’ho distrutto, quindi evitate vane richieste.
    Buon week-end!

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  • Di nuovo Dan Brown. Per la serie: A volte (ahinoi) ritornano. Il suo ultimo romanzo si chiama Il simbolo perduto. Premetto che io di uno che di cognome fa Marrone non leggerei neanche una riga. Con tutto il rispetto ho sempre avuto un’inspiegabile antipatia a pelle per quelli che hanno il cognome monocolor come i quaderni. Per non parlare del triste signor Rossi protagonista di tutte le vignette dei libri delle vacanze fin dalla prima elementare. Quasi più del tal Pinco Pallino. Va detto quindi che, qualunque esternazione in merito al suddetto autore, trova giustificazione nel superficiale e dichiaratissimo pregiudizio radicato in me dal lontano Codice Da Vinci del quale ho potuto ammirare la venerabile trasposizione cinematografica che  ha generato in me un riso tale che neanche l’intera serie dei Fantozzi aveva saputo fare.
    Quello su cui volevo riflettere non è tanto il valore della sua ultima opera, prima in classifica che, dai commenti su IBS, pare fare orrore in ogni senso. Da non sottovalutare che i primi commenti sono sempre quelli degli estimatori (ne avrà qualcuno anch’egli) che per primi acquistano il libro, quindi delle gran lodi, solitamente. Pensate a cosa scriveranno fra qualche mese. Quello su cui volevo soffermarmi è il prezzo: ventiquattro euro.
    Ricordo quando si diceva che il prezzo dei CD era salito alle stelle, che la discografia in Italia andava a merda perché la gente non poteva permettersi di spendere venticinque euro per un CD. Ricordo le battaglie, le discussioni, le campagne per abbassare il prezzo dei CD, per combattere la pirateria che io invece approvo – uno cosa dovrebbe fare se con venticinque euro, di CD qualitativamente identici agli originali ce ne compra 5, 6 o 7 e magari regala pure un candido sorriso a un vucumprà?! – e ricordo benissimo il paragone coi libri. Era quella l’argomentazione più convincente: “Una prima edizione costa dieci/quindici euro e un CD venticinque”.
    E ora? Nessuno fiata sul prezzo dell’ultimo libro di Dan Marrone? Passino sedici, passino diciotto, ma, signori, ventiquattro euro!
    Alla luce di quanto detto e dei miei anni di lettura, che non saranno né più né meno di quelli di tantissimi di voi, vorrei permettermi di dare qualche consiglio a chi si appresta ad acquistare Il simbolo perduto. Vediamo un semplice esempio di come spendere un tantino meglio i nostri soldi. Il budget è ventiquattro euro, abbiamo detto. Benissimo! Io comincerei con l’acquistare Novecento di Baricco, euro cinque. Poi certamente Il piccolo principe, euro sette e cinquanta che, sommati ai cinque di Novecento fanno dodici euro e cinquanta. Poi L’amico ritrovato di Hullman, euro cinque e cinquanta. Siamo a diciotto euro, ci restano sei euro e allora metteteci cinquanta centesimi in più e portatevi a casa Presagio triste di Banana Yoshimoto. Poi, se li prendete tutti su IBS, tra sconti e promozioni di sicuro ve ne accattate un altro. Ebbene, ecco come acquistare quattro/cinque libri meravigliosi al prezzo di una gigantesca cagata.
    Facile no?!

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  • In alto

    All’improvviso riprende a soffiare il vento. Ma quale vento… Qua è un uragano, una detonazione atomica, un’indescrivibile e pazzesca sensazione di beatitudine. È una specie di squarcio dimensionale che si apre di fronte a me. Devo fare un passo ed entrare a contatto con una realtà che, pur distante anni luce, sembra così vicina. Un passo soltanto. È surreale quello che si prova, per quanto continui ad apparirmi come un pessimo scherzo. Io il destino lo temo perché con me si è sempre divertito, e il disincanto poi è spietato sui sensi. Quindi stavolta faccio finta che è già Carnevale e mi ritravesto da scrivente, col mio portatile di terza mano che s’impalla appena mi azzardo ad aprire due finestre contemporaneamente. Intanto manca un mesetto all’uscita di Supermarket24, ma lasciamo perdere i conti alla rovescia che l’ultima volta hanno portato una sfiga colossale. Quello che avevo impostato con scadenza metà marzo si è rivelato il conto alla rovescia all’inizio del periodo più brutto della mia vita. Chi mi segue da un po’ sa a cosa mi riferisco. La casa editrice che doveva pubblicare Supermarket24 ha chiuso i battenti immediatamente prima della pubblicazione del mio libro. Poi il terremoto e via dicendo. È proprio vero che bisogna aver pazienza. Pazienza in amore. Pazienza nelle passioni. Pazienza con chi riesce a tirar fuori il peggio di noi. Pazienza col tempo che sembra non passare mai. L’orologio segna la stessa ora da ore. Eppure la lancetta si muove, ma l’immobilità del resto fa sì che quel procedere risulti vano. Pazienza con le nostre insoddisfazioni e con l’ennesimo obiettivo mancato. Pazienza coi sogni. Io non lo so che succederà, ma un gigantesco gancio meccanico, di quelli che svuotano ogni due o tre giorni il cassone di spazzatura del Mc Donald’s, mi ha afferrato e tirato fuori da lì. Volo a bordo di un palloncino che si allontana dalla terra, dalle case, e dalle voci della gente. È solo un palloncino, potrebbe scoppiare da un momento all’altro, eppure le saette del temporale che imperversa fuori dalle pareti gommose e colorate di rosso e di blu e di verde acido, non mi fanno paura. Volo e basta. A bordo di un palloncino ora sto e qui si sta bene. A bordo del palloncino un po’ di spazio c’è. È così che mi sento ora: in alto.

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  • Sabato è stata una giornata inutile. Di quelle che ti fanno soltanto pensare. Non che sia inutile pensare, però non ci voleva perché non sono pensieri che ridono. Fanno tutto loro, io ormai resto fermo a guardare i loro spostamenti, il loro arrabbiarsi, il loro disilludersi, la solitudine che tutto a un tratto li fa sentire soli e che di riflesso mi svuota. Come se a riempire la testa e a coprire il fuoco dell’insoddisfazione non sia un reale benessere, ma solo la cenere di decine di voci che giornalmente creano un rumore soltanto apparente. Sono il padrone di pensieri che non mi ascoltano più e neanche più si ascoltano fra loro. Un’anarchia illogica che fa solo soffrire. Genera sofferenza distruttiva fine a se stessa. Di tanto in tanto mi soffermo a raccontar loro quello che ora sono, semmai non l’avessero notato, troppo presi dalla continua lotta contro gli scogli, per modellarli, per cambiarli. Lo fanno per me e non si accorgono di me. Non mi parlano più, non perché ce l’abbiano con me, ma perché non hanno tempo per me, i miei pensieri. Sono io a dover strappare dalla loro bocca parole forzate per mantenere una convivenza che non distrugga me e non distolga loro dall’ammirevole lotta contro i mulini a vento di fronte a casa mia. Una casa che non cambia mai. Una casa che non sono riuscito a cambiare io e nemmeno il disastro naturale del secolo. Ho la sensazione che tutti i miei tentativi abbiano ottenuto l’effetto contrario, rafforzando la paralisi, aggiungendo cemento a una struttura che pensavo di poter distruggere e che invece ho contribuito a stabilizzare. Ho la testa vuota. Se mi abbandonano pure i pensieri un motivo ci sarà. Me lo sono chiesto ieri e non vedevo che grigiore e non sentivo che vento. Era un po’ che non mi ritrovavo a piangere le mie mancanze che non colmo mai. La consapevolezza di non avere nessuno qui, che sia veramente qualcuno per me, mi ha raggiunto come una mattonata scagliata con violenza dietro la schiena da una mano improvvisa, inaspettata.
    La pelle implorava calore che non volevo e non ho voluto darle. Gelavo nella speranza che il freddo di questo novembre che inizia riuscisse ad anestetizzare pure il mio invisibile dolore.

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  • Nove persone fra progettisti, collaudatori, direttori di cantiere e direttori dei lavori sono state raggiunte da avvisi di garanzia emessi dalla Procura della repubblica dell’Aquila, per il crollo della sede della facoltà di Ingegneria nella frazione di Roio. L’ipotesi di reato è: disastro colposo.
    “Nella facoltà di Ingegneria è crollata una parete che avrebbe potuto costituire, se a quell’ora fossero stati presenti studenti, un rischio di morte per duemila persone.”
    È questa, secondo il procuratore della repubblica dell’Aquila, Alfredo Rossini, una delle ragioni principali per cui sono stati emessi gli avvisi di garanzia. I nomi e le responsabilità di queste persone sono e devono essere pubblicamente detti. Mauro Irti, direttore del cantiere e rappresentante della Irti Costruzioni, impresa poi fallita, che faceva parte dell’Ati (associazione temporanea di imprese) che ha realizzato l’opera; Alessandro Fracassi e Carmine Benedetto, anche loro direttori di cantiere; Gianludovico Rolli, Giulio Fioravanti e Massimo Calda, progettisti; Sergio Basile e Giovanni Cecere, collaudatori; Ernesto Papale, direttore dei lavori. Complessivamente, nell’ambito dei primi tre filoni della maxi inchiesta sul terremoto di aprile, sono 26 le persone raggiunte da avvisi di garanzia. Oltre all’Università, i filoni riguardano la Casa dello Studente e il Convitto nazionale, dove sono morti rispettivamente otto e tre giovani. In questi ultimi due filoni i capi di imputazione contestati sono omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose.
    Penso a quel numero spropositato. Duemila solo a Ingegneria. Il terremoto è stato benevolo. Sarebbero bastate poche ore in più, sarebbe bastato il sole del lunedì a trasformare quella che certamente è stata una tragedia dolorosissima in una vera ecatombe dalle dimensioni raccapriccianti. Questa gente deve pagare a caro prezzo le proprie colpe. Intanto per chi la vita ce l’ha lasciata, sotto le macerie, e poi per chi è stato salvato dalla sorte, dall’intervento dei vigili del fuoco o da una circostanza fortunosa, dalla notte. Per chi il giorno dopo sarebbe dovuto andare a lezione, per esempio.
    Il 17 ottobre ha riaperto al traffico via XX Settembre, rimasta chiusa per oltre sei mesi. La strada maledetta, quella della Casa dello Studente, la via in cui si è registrato il maggior numero di morti. Io ci sono passato ieri e ho sentito il cuore fermarsi mentre dal finestrino contemplavo la fine di ogni cosa. In quella strada è finito tutto. La distruzione che non si può descrivere. Palazzi interi spariti che aprono la vista a tutto quello che prima stava dietro. E quel maledetto silenzio. L’assenza di persone, l’assenza di corpi che passeggiano chiacchierando per raggiungere il centro, l’assenza di automobili parcheggiate sui bordi della strada, quelle che mi facevano incazzare da matti perché bloccavano il traffico. Ora c’è il vuoto stretto da impalcature e puntellamenti di legno. Il vuoto totale. Non ci sarà il solito fiore a spuntare dall’asfalto, stavolta e in quella strada no. La fine di tutto tranne che del pianto.

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  • FOR

    Fuori piove. È  un brusio delicato che fa da sfondo alla fine di tre settimane assordanti e massacranti e pure sconcertanti, giusto per dirne un’altra in anti, in preparazione alla visita della supervisora, mercoledì e giovedì scorso. Il Mc Donald’s è un evidente esempio di realtà in costante collisione con la comune immaginazione. Non biasimo tutti coloro che hanno la ferma convinzione che nella cucina dei Mc Donald’s si consumino le peggiori porcate possibili e immaginabili. Ne ero certo anch’io prima di ritrovarmici invischiato. Qualcuno mi raccontava che nei corridoi dei Mc Donald’s passeggiano topolini più o meno grossi e dalle colorazioni variegate, pure tendenti al nero e con la coda dura. Oppure che i crew (i ragazzi con la maglietta arancione) talvolta sputano sul pane o che, se cade una carne a terra, loro la raccolgono e la rimettono nel panino. Ebbene, la realtà è molto diversa. La realtà è che la pulizia maniacale che vedo quotidianamente ricercare e applicare lì dentro non l’ho vista da nessuna parte. Neanche alla trattoria casereccia in cui lavoravo prima del supermercato in cui lavoravo prima del Mc Donald’s. Non fatevi mai ingannare dalle apparenze di una realtà casalinga, familiare. Solo perché il piatto tipico sono le fettuccine al sugo fatto in casa non significa che i pomodori con cui l’hanno preparato, per esempio, non possano essere stati mezzi marci e usati ugualmente, per dirvi. Il Mc Donald’s è soggetto a una serie di controlli rigidissimi, uno di questi si concretizza nella FOR che sta per Full Operation Review. Due giorni pieni in compagnia della suddetta supervisora, questa ragazza dall’apparenza amicale e dalla sostanza spietata che controlla ogni minima cosa. Ogni significa tutto, tutti, tutte. A partire dalle scadenze, alle procedure per rimuovere la carne o per salare il filetto, per passare alla pulizia del locale e pulizia non è uno sguardo così, andante e superficiale. No, lei indossa un guantino candido e lo passa sotto le superfici più impensate. Gli angoli più interni, nascosti e irraggiungibili lei li raggiunge, verifica se c’è anche solo un leggerissimo velo di polvere e sottrae punti al risultato finale. Poi prende i tempi di servizio. Il cliente non può aspettare troppo e allora è tutta una corsa con gli occhi di lei che si dividono fra le tue mani e il cronometro. Ci sono volute tre settimane per dodici ore al giorno: le nove ore del turno più due o tre per dedicarci alle pulizie straordinarie, ad approfondire procedure non chiarissime, a fare in modo che tutto vada bene per superare la visita al meglio. È andata e avrei bisogno di andare pure io, sì, quattro o cinque anni in ferie per riprendermi. Chissà perché penso che la mia vicedirettrice non sarebbe d’accordo, però, per fortuna, una settimanella a metà novembre me la sono guadagnata. È già qualcosa.
    E che farò in quella settimana? Forse comincerò a raccogliere il materiale per la tesi che il professore aspetta di vedere da settembre? Manco per niente, ho un racconto da finire (dopo magari averlo iniziato) e da inviare entro metà dicembre, poi c’è Supermarket24 e tutto il suo mondo intorno, che gira ogni giorno e che per un’ora d’amore non so cosa darei. Ah, no quella è un’altra. Sarà un lapsus per via dell’astinenza. Freud c’aveva visto lungo.

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  • Ho distrutto la fiancata della di mio padre automobile. Tornavo da Pescara, dal mare, con in tasca tre quarti di spiaggia che poi ho riversato per tutta la casa, giusto per far sentire mia madre in vacanza, lei che il mare non lo vede almeno da nove o dieci anni. Subito una buona notizia: sono vivo. Ero piuttosto stanco, piuttosto significa stanco come un cadavere, però ho deciso di andare ugualmente. Questo perché non penso mai a quei quattro (centomila) capelli bianchi che si moltiplicano sopra le orecchie, riuscendo ancora abbastanza a mimetizzarsi, devo con orgoglio affermare, però ci sono e significano non che sia diventato vecchio, per carità, ma che a ventotto anni, dopo dieci ore di lavoro, quando ti sei svegliato alle cinque perché c’era da aprire alle sei e mezza di mattina, non puoi, caro Matteo, partire e metterti a viaggiare fra strade buie piene di curve e strabenedetti guardrail. Benedetti sì perché, se non ci fosse stato il guardrail, 1. non mi sarei risvegliato, e quando dico che non mi sarei risvegliato intendo per tutti i secoli dei secoli, 2. non avrei rimesso la macchina in carreggiata e 3. sarei finito a rotolare in un crepaccio sperimentando l’eccitante sensazione di un tuffo carpiato fra i sassi, difficoltà 10, e il punto 1. sarebbe stata la naturale conseguenza di tale tuffo. Nell’istante della botta ho riaperto gli occhi e non mi sono più riaddormentato per i successivi tre giorni. In questi casi bisogna elaborare le parole giuste per comunicare la sciagura e visto che le parole giuste non arrivavano mai mi son dovuto inventare uno stratagemma per nascondere agli occhi dei miei lo sfacelo. Ho studiato ai minimi dettagli il parcheggio perfetto. Quello, cioè, che grazie a un millimetrico gioco di luci e ombre, dovuto al muretto e alla siepe che lo sovrasta e all’albero di castagne pazze che sta marcendo dietro la ringhiera, impediva a qualunque umano occhio la vista della verità. Come se, parcheggiandola in quel modo, fossi riuscito a creare un ologramma che riproduceva l’immagine della Hyundai Getz di mio padre nuova fuori casa mia. Tutto quadrava. Mio padre usa sempre la Bravo di mia madre, mia madre usa sempre la Matiz mia che mia sorella ha ridotto a un catorcio, mia sorella non usa niente perché è risultata positiva al test dei cannabinoidi e la patente la rivede col nuovo millennio. Il trucco è stato svelato da una nefasta concomitanza di eventi. Il posto davanti al cancello era occupato dalla Matiz e allora mio padre ha parcheggiato la Bravo attaccata al muretto, proprio a quello del gioco di luci e ombre, e io mi son ritrovato a dover abbandonare la Gets in pasto agli occhi di tutti, firmando così il mio suicidio.
    “Hai sbattuto con la macchina?” “No, era già così!” Mio padre mi guarda confuso. “Dai, sì, ho sbattuto, ma ho già trovato chi me l’aggiusta a un prezzo umano.”
    Questo signor carrozziere segue un altro signor carrozziere a cui mi sono rivolto che, prima m’impolpetta l’esistenza a suon di robe del tipo: “I veri artigiani non ci sono più. I giovani d’oggi pensano solo ai soldi…” e poi mi chiede mille euro. Io, che ignoro i costi, ho dato uno sguardo alla fiancata e ho pensato: Beh, se questo vecchietto coi baffi e gli occhi affidabili e appassionati al suo mestiere mi chiede mille euro, vorrà dire che ci vorranno mille euro. Poi, per scrupolo, la faccio vedere a un altro che per lo stesso lavoro e per cambiare gli stessi pezzi mi chiede quattrocentosettantacinque euro e penso: Ma tu guarda quel vecchio bastardo, voleva ciularmi cinquecento euro pulite pulite. Martedì dovrebbe essere pronta e la prima cosa che farò sarà recarmi dal vecchio appassionato (ai soldi) e riempirlo di improperi fino a fargli prendere un infarto. Capita a tutti, prima o poi, di ammazzare qualcuno.

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  • In questi  mesi di presenza/assenza, di morte apparente e resurrezione, apparente pure quella, del blog, di dieci ore al giorno di patatine fritte, cuor di brie e flurry m&m, di notti non dormite e giorni ciondolanti, non tutto è rimasto fermo. Nei rimasugli di ore, seppur stravolto e con la testa carica di puzza di fritto, voci, problemi e il fegato gonfio – certi giorni veramente mi vien voglia di prendere a calci qualche porta e a pugni un albero o una delle gigantesche emme gialle nel piazzale del Mc Donald’s, pur di non farlo con la faccia di qualcuno – ho messo in moto un meccanismo stradifettoso, ma pieno zeppo di energie multiformi e sincere, che fanno di oggi il momento per comunicarvi lo strabiliante risultato raggiunto. Supermarket24 uscirà prestissimo, pubblicato da Camelopardus di Sara Saorin.
    Per star certi e non alimentare false illusioni in chi lo aspetta da mesi, me compreso, diciamo che uscirà per Natale, che non significa esattamente a Natale, ma intorno a Natale, per regalarlo magari a Natale, se vorrete, e quindi necessariamente prima di Natale per darvi tempo di andare in una libreria e costringere l’essere umano che la gestisce a procurarsene una copia prima della messa di mezzanotte. Insomma, la data ufficiale non esiste ancora, quella con il giorno per capirci. Il mese e l’anno sì, almeno si spera, e pure la copertina che illumina questo sito come un verde sole.
    L’autore è sempre lui Pino superstar, colui che ha curato anche la copertina di Non farmi male e poi la grafica di questo blog e poi le locandine di Non farmi male e quelle di Supermarket24 e ancora cose che voi umani non potete immaginare, per ora almeno. Ho aggiornato anche la sidebar (ho capito che si chiama così quando Pino mi ha chiesto se volevo mettere la copertina nella sidebar, appunto, e io ho ipotizzato che volesse incollare centinaia di locandine nelle vetrine polverose dei baretti periferici della provincia. Invece lui intendeva la colonna del blog dove sono scritte tutte le cosine, i link, le recensioni e… quant’altro, come dice la mia vicedirettrice quando, agli sgoccioli di un lungo elenco, di fronte alla numerosa folla con gli occhi puntati su di lei, improvvisamente il buio copre tutto e non le viene da aggiungere altro di diverso da un poco convincente quant’altro. E allora, considerato che c’è ancora molto da raccontarvi e che quello che seguirà l’uscita del libro sarà un periodo incredibilmente eccitante, direi di fare un pausa caffè e risentirci più in là. Intanto col caffè gustatevi biscottini, torroncini, cioccolatini e… quant’altro offerto da me medesimo che trovate sul tavolinetto della Stanza.

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  • Quello che penso ora dell’amore mi fa spavento come l’idea del suicidio. Quello che sono io oggi – e lo sono diventato, perché non ero affatto così – m’intristisce. È un procedere fino a un tempo e un luogo non chiari, da un preciso punto in cui s’è spento tutto, con la consapevolezza che non ci saranno fremiti come allora, più vivi, più o meno, almeno. Da quell’istante in poi non è esistito un più, un meno, neanche quando pensavo di aver trovato uno specchio d’acqua limpida, proprio al limite della sete. Questo è il passato e appena un attimo di presente, e quel momento, che ha fatto da spartiacque, non è rilevante né so identificarlo se non con un poco definito prima. È come quando piove fino a un certo punto della città, o della provincia e dopo il cavalcavia non piove più. In corrispondenza di quale colonna o passo di cemento o ramo di salice piangente l’aria ha ripreso ad asciugarsi? Ecco, non lo so, però so che è tutto troppo asciutto ora che avrei bisogno di piangere un po’. La mancanza di lacrime mi preoccupa, è come se si fosse asciugata pure la mia personalissima e un tempo zampillante, sorgente di emozioni. Nel futuro non vedo cambiamenti e, se al tempo dei sussulti del cuore avevo la forza di proiettarmi in convincenti buoni propositi sempre pronti a salvare la storia della mia vita, con nuove promesse a me stesso, adesso neanche più quelli. Questo garantisce la paralisi. Già gli eventi fanno una gran fatica a trasformarsi quando i protagonisti sarebbero persino pronti a rinunciare a tutta la loro libertà, dedicare ore ed ore e talvolta tutte le ore, a fatiche per niente gratificanti pur di poter un giorno strappare i copioni e reinventarli da zero, figuriamoci se la rassegnazione possa aiutare a scrivere un altro, più luminoso finale. Un finale che preveda la voce amata, per chi ce l’ha almeno avuta, e quella voce non l’ha più scordata. Un finale che prenda spunto da un sorriso, per chi non ride da un po’, ma che prima rideva ogni minuto. Io l’amore lo ricordo, perché certe immagini passate sono più vive delle foglie secche di questi giorni, che neanche fanno rumore schiacciate dalla suola delle scarpe di chi mi passa sopra indifferente A ridere rido ancora e spesso, ma sono risa sintetiche, risa divertite, ma che non possono dimenticare come ridevo prima, e grazie a chi. Non sia mai, dimenticare. Ecco, grazie a chi. Intanto mi sgretolo.

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  • Ieri ho fatto un giro per i cantieri aquilani. C’ero passato meno di un mesetto fa, a dare un’occhiata. Sono rimasto sorpreso. Stanno facendo un lavoro immenso in pochissimo tempo, e non sono così brutte quelle casette, come dicono e come dicevo anch’io. Non che invidi chi dovrà abitarle, sia chiaro. Ok, non saranno residenze regali, piccole e scomode e tutte così vicine, però sono colorate, sicure, calde e c’è anche il giardino. Per qualche istante mi sono fermato a riflettere sulle possibilità non vissute e allora mi sono domandato come sarebbe andata a finire se al governo ci fosse stato Prodi. Prima che ruggiscano i leoni e barriscano gli elefanti e gloglottino i tacchini (?) massacrando i miei timpani sopraffini, fatemi dire che io la politica né la odio né la amo, né mi è indifferente, né la seguo, né la schifo. Non sono uno di quelli che a fine cena si accende una sigaretta e comincia a sfoggiare nomi di parlamentari attivisti o menefreghisti col papiro del loro benfatto o malefatto. Sono un semplice e anche povero parlerino. Se il ballerino è uno che balla, il parlerino è uno che parla. Non voglio avere ragione né far arrabbiare nessuno anche perché io non mi arrabbio quando qualcuno spara puttanate grosse come un pianeta. Il parlerino parla come se avesse firmato un contratto per farlo e non si chiede quasi mai se quello che dice merita o sono solo grosse puttanate, appunto. Questa premessa ha l’unico e fondamentale scopo di prevenire l’oceano di attacchi e argomentazioni contrarie di chi invece l’abitudine di accendersi una sigaretta dopo cena, e mettersi a sbobinare tutte le sue teorie filosofico-politiche, rigorosamente di sinistra, ce l’ha eccome. No, io non voglio parlare di politica. Il mio è un discorso molto più superficiale. Sì, superficiale lo dico io prima di chiunque altro, così preveniamo pure questa.
    Terremoto a L’Aquila. Prodi al governo.
    Entrate nell’ottica, teletrasportatevi in questa dimensione parallela in cui tutto è uguale tranne che per una sola singolarissima cosa. Prodi al governo. Quella sua faccia più affumicata di un salmone affumicato. Quei suoi occhi così profondi, intuitivi, svegli, dinamici. Lui soltanto, alle prese con la catastrofe peggiore degli ultimi trecento anni. Cos’avrebbe fatto? Con quella sua vocina flebile, lenta, pacata, immobile, che necessita di lunghissimi minuti per formulare un mezzo concetto. Sarebbe salito a bordo della sua Graziella sgangherata per raggiungere i luoghi distrutti, o forse avrebbe pensato di regalare biciclette ai terremotati in una città in cui son tutte salite e discese. Mi piacerebbe chiedergli come si sarebbe posto lui di fronte ad una tale emergenza. Cosa avrebbe deciso, promosso, suggerito lui.
    Ho provato a immergermi in questa proiezione e quello che ho visto sono state distese di tende per tutto l’inverno. Mi viene in mente che magari lui avrebbe concentrato i fondi nella difficile missione di riscaldare le tende. Avrebbe fatto istallare stufette a pellet per tutti, anche per chi ce l’ha già, sempre meglio abbondare, in attesa di qualche container di plastica nel quale morir di caldo e di freddo tutti i giorni. Occhio, ragazzi! Non sono parole che puntano a inneggiare alla Maggioranza, né questo post mi è stato commissionato da Berlusconi a suon di tintinnanti milioni (di euro) in gettoni d’oro, vi giuro (e comunque non ve lo direi). Vuol’essere solo l’opinione di uno qualunque che cammina per le strade aquilane e vede tutti i giorni migliaia di omini vestiti di arancione che, da prima che sorga il sole fino a molto dopo il suo tramonto, mettono in piedi il futuro di trentamila persone. Io trovo che si stia facendo molto, che molto si sia sbagliato, che trovare intoppi e soluzioni migliori col senno di poi sia quanto di più semplice per tutti i bravoni travestiti da opinionisti, però trovo che non si possa rimproverare al governo una mancanza di volontà, come credo sia il caso di gridare un immenso grazie a tutte le associazioni, le aziende, le grandi imprese, i piccoli cittadini e le multinazionali mondiali che in questi mesi hanno inventato centinaia di migliaia di iniziative per mettere semi nella terra scavata da ruspe gialle.
    Io il terremoto di Umbria e Marche me lo ricordo, avevo sedici anni. Al governo c’era Prodi. In quell’occasione fece visita ai terremotati due mesi dopo l’accaduto. Persino il Papa fu più veloce di lui, e questo è dire molto, anche se erano altri tempi, ed era tutt’altro Papa quello. Ho letto che c’è ancora gente che da quelle parti aspetta una sistemazione e sono passati dodici anni. Questo per dire, insomma.

    Scrivi un commento →: Signore e signori Ppprrr(pernacchia)odi!

sono Matteo

Sono nato a L’Aquila nel 1981.
Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…

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