Madre non la riconosco più.
La chiamo e non mi risponde. Poi mi arriva un’email con in oggetto la parola BUONGIORNO.
Testo: Caro Matteo, nelle ore diurne sono spesso impegnata; lavoro da quarant’anni e quella stronza della Fornero ha deciso di prolungare ulteriormente la mia agonia. Nel pomeriggio pure sono impegnata nelle faccende di casa. A dire la verità un po’ meno di prima. Da quando te ne sei andato sembra che il pulito in casa duri di più, lo sai? Quindi chiamami nelle ore serali, prima che inizino i programmi in televisione, e mai il mercoledì che c’ho Chi l’ha visto? né il venerdì che c’ho Quarto grado. Oppure puoi mandarmi un esse emme esse, oppure ancora della posta elettronica all’indirizzo da cui ti sto scrivendo. La leggerò con calma quando sarà.
Ci sono molti modi per sentirci senza disturbarci. Ciao, mamma
Madre ha accolto la lieta novella del lavoro trovato dal Primogenito con la stessa gioia che una mamma cinghiale riserverebbe al cacciatore intenzionato ad assassinarle tutti i cuccioli per farne barattoli di sugo da vendere ai ristoratori.
Lei vorrebbe un figlio informatico possibilmente ricchissimo, ma io non sono così. Non sono questo. Gliel’ho spiegato in una lunga telefonata. Alla fine, con tono esausto, ha detto:
– D’altronde quello dei libri è il tuo habitat naturale. E agli animali l’habitat non glielo puoi cambiare.
– …
– Buongiorno, posso lasciarle il mio curriculum?
– Ancora?! – e sbuffa.
– Cosa?
– Basta co ‘sti curriculum. Li stiamo stracciando tutti! – esclama sbattendo la mano sul bancone.
– Ah, ok. Scusate eh.
Convinco Madre a guardare Masterpiece, il reality degli scrittori che solo in Italia (e facciamocele due domande, comunque…). Ci riesco dicendole che è molto più angosciante di Chi l’ha visto? e più drammatico di Quarto Grado. La telecamera indugia sul faccione di Giancarlo De Cataldo e lei immediatamente ci crede.
– Quanto s’è ingrassato Andrea De Carlo!
– Madre, quello è De Cataldo!
– Ma non faceva il cantante?
– No, quello è Massimo!
– Ma non ha messo le foto su Fèsbuc che ha menato la moglie?
– E’ sempre Massimo!
– Ma come faceva quella canzone sua?
– Dài Ma’, sentiamo un attimo che dicono questi aspiranti…
Mi volto. Non ho fatto in tempo a dire la parola “scrittori” che lei è piombata in uno stato di incoscienza totale. Coma.
A ridestarla, quaranta minuti dopo, è la voce di un concorrente che legge l’elaborato scritto dopo la prova immersiva. Il tema era raccontare un omicidio al mercato della frutta nel 2066.
Un cadavere se ne sta sepolto sotto un banco di zucchine. Una macchina a un certo punto prende il volo – unica straordinaria trovata del concorrente per rispettare la svolta futurista del tema. Madre è ipnotizzata. Non sbatte neanche più le palpebre. Segue a bocca aperta la struggente interpretazione dell’indagine, i dialoghi fra i poliziotti del futuro.
Chi avrà ucciso il fruttarolo?
Il concorrente finisce. Io trattengo un conato. Madre si volta verso di me ed esclama:
– Ma che cosa è questa merda?
Ha negli occhi il fuoco di rabbia che si accende quando apre il mobiletto e non trova più i suoi biscotti integrali.
– Matteo, ti giuro, te lo giuro sui miei figli (!!!), che io so scrivere meglio!
Poi si contorce sulla poltroncina rossa alla ricerca di una posizione ideale per riprendere sonno e, un attimo prima di crollare, subito dopo un malinconico sospiro, esclama sottovoce:
– Era così bravo Andrea De Cataldo quando stava con Eleonora Giorgi. Tu guarda come si deve ridurre la gente famosa quando diventa vecchia. Molto meglio io che almeno sto qua, sulla mia poltrona, e non rompo le palle a nessuno.
– …
Madre accoglie il suo primogenito di ritorno dalla terra straniera con un abbraccio e un bacio.
– Mi sei mancato… – dice con un tono sospeso. Non intervengo, è evidente la sua intenzione di completare la frase.
– Per fare l’Albero di Natale! Mi sono sentita persa fra tutti quei rami finti di grandezze diverse.
– Ah, solo per l’Albero?
– Nooo! Che hai capito! – esclama in tono amorevole.
Allora le sono mancato eh! Le è mancato suo figlio, penso. Quello con cui commentare Chi l’ha visto?, Quarto Grado e Delitti imperfetti. Le è mancato l’amore, la compagnia, la complicità, le litigate. Poi lei dice una cosa e in un attimo diventa lampante che stavo incorrendo in un facile errore di valutazione:
– Anche per regolare il termostato del riscaldamento. Lo sai usare solo tu! Anzi, insegnamelo. Così non serve che torni così spesso.
-…
Stefany dell’agenzia interinale Adecco è la mia nuova stalker personale. Mi telefona più lei che Madre. (Ehi Madre, sono io! Il tuo primogenito rifiutato, ricordi? Sono qui, a Firenze, da solo, in una straniera città. Non ti viene voglia di sapere come sto, che faccio, se sono vivo… mai?) Torniamo a Stefany di Adecco. Si è messa in mente che sarò proprio io il responsabile che stanno cercando in una nota catena di ristoranti. Non faccio il nome, ma sono i soliti molto fast che stanno nei centri commerciali. Lei è perfetto, Matteo. Non sa quanto ho dovuto faticare per trovarla nella nostra banca dati Adecco. Povera! Quasi mi pare di sentire lo sgocciolio del sudore a terra. E’ l’unico su Firenze, Prato e Pistoia ad avere certe caratteristiche, conclude in procinto di un orgasmo. Le caratteristiche in questione sono riassumibili nell’aver lavorato per cinque anni in un McDonald’s. Chi ci riesce a stare cinque anni dentro a un McDonald’s? si sarà domandata la Stefany. Lancia gridolini al telefono, è estasiata dalla mia esistenza, e io lì per lì non me la sento di contraddirla. Vado a fare il colloquio.
Il ristorante si trova all’interno di un gigantesco centro commerciale molto fuori città – in un’altra città, per essere precisi – raggiungibile soltanto in taxi. L’autista Marcello mi bombarda di domande. Mi chiede pure qual è il titolo del mio ultimo romanzo. (La domanda precedente era: Ma non fai niente nella vita oltre a cercare lavoro? E allora gliel’ho dovuto dire per forza che scrivo. Mica potevo lasciare a Marcello la sensazione di aver parlato con un perditempo!) Ma gli scrittori non è gente ricca? mi domanda. Qualcuno sì. Gli altri sono condannati a morire di stenti. Io sono uno di quelli degli stenti, rispondo, ben sapendo che la sua parlantina fa parte di un subdolo piano per distrarre il passeggero e allungare il tragitto più del dovuto. Vorrei anche consigliare a Marcello di non iniziare mai una frase con ma. Poi penso che io lo faccio spesso, e allora sto zitto. Mi saluta con un commovente: Ricordati che la cultura non è acqua! e io, per l’appunto, mi commuovo. Finalmente qualcuno che si accorge della mia cultura così evidente, penso. Lo saluto, chiudo lo sportello. Ehi, i soldi bello!, esclama lui dal finestrino. Gli allungo 15 euro, se ne va. Mi volto e mi sento triste davanti a questo gigantesco centro commerciale con le vetrate luminose immerso non so dove in un buio di niente.
L’unico colloquio che desideravo intimamente andasse male invece va benissimo. Sono entusiasti di me. Tutto dipende da te. Siamo certi che diventerai un grande manager. Ti si legge negli occhi, mi caricano, mi esaltano. Faccio per dirgli che io me ne sono andato dal McDonald’s anche per questo. Io non voglio diventare manager di niente, non voglio comandare nessuno, non voglio essere odiato nella vita. E poi una vita la vorrei, ecco, invece quel lavoro te la toglie. Poi penso a Stefany di Adecco che ci tiene tanto che io venga assunto, che mi ha telefonato quattro volte in un giorno, pure per sapere se avessi trovato un taxi, e se il taxi che avevo trovato mi avesse condotto nel luogo giusto. Allora costruisco il mio sguardo onnipotente e cinico. Facciamo finta che sia un gioco, e io lo voglio vincere, mi convinco. Racconto di episodi al McDonald’s partoriti dalla mia fervida fantasia, tutti caratterizzati dal fatto che a un certo punto arrivavo io e risolvevo le questioni brillantemente. Con le buone, ma soprattutto con le cattive. Il capoarea pende dalle mie labbra. Io annuisco quando lui parla, assecondandolo. Sto andando benissimo, penso.
Ma cosa sto facendo? Sto interpretando un personaggio che non mi appartiene per farmi assumere per un lavoro che non mi interessa? Allora mollo la presa, mi limito ad ascoltare, rispondo con sufficienza; sono stanco di questa pagliacciata. Ma ormai non posso stravolgere l’idea che si son fatti di me. (Esempio di frase che inizia con ma.) E’ troppo tardi. Loro mi amano. Me lo dice Stefany un paio di giorni dopo: Desidero restituirti il feedback dell’azienda, come ti esprimi bene Stefany!
Le spiego che otto ore spezzate in due turni, a quaranta minuti di treno da casa, non sono fattibili. Se fossero state consecutive, magari…E’ lo spezzato il problema, ho la brillante idea di sottolineare. Stefany al telefono ha un tono colpito, ma non affondato. Anzi, dalla cornetta mi arriva una specie di sibilo di vendetta. Stefany ha un piano B, penso.
Due giorni dopo mi telefona una donna. Matteo, mi chiamo Adoriana, sono la responsabile regionale della catena di ristoranti Chisaitu. Ha fatto una così buona impressione ai miei… subalterni, che ci tenevo a scambiare quattro chiacchiere con lei. Mi ha dato il suo numero Stefany di Adecco. Lo sapevo, lo sapevo! Potrebbe spiegarmi come mai non vuol provare a entrare nel nostro staff?
Si è scomodata addirittura la responsabile regionale. La ringrazio per cotanta premura. Vorrei essere sincero con Adoriana, dirle che mi sono fatto un mazzo tanto per laurearmi in Informatica. Che me ne sono andato da L’Aquila, ho lasciato il vecchio lavoro, analogo a quello che lei mi stava offrendo con tanto ardore, perché non stavo bene, non ero felice. Sono venuto a stare a Firenze per cercare qualcosa che sia più vicino alle mie inclinazioni. A queste parole che non le dico vorrei anche aggiungere che dentro a una specie di fast food non ci metto piede neanche più per mangiare, ma no. Mi limito a ripeterle la storia dello spezzato, con l’ingenua certezza che in un ristorante che fra il pranzo e la cena chiude non sia davvero possibile fare otto ore consecutive. C’è qualcosa che mi dice che mi sbaglio. Una sensazione sottile come il piano B di Stefany. Mi aggrappo all’irrisolvibilità del problema logistico del doppio turno, e Adoriana mi frega. Bene Matteo, le prometto che cercherò di capire se è possibile farle fare un full time senza spezzarle il turno. La farò richiamare da Stefany di Adecco appena avrò notizie al riguardo.
In attesa della chiamata di Stefany – arriverà, lo so – quel che è certo è che devo procurarmi una macchina. Ogni colloquio diventa un’avventura, e le avventure possono anche trasformarsi in disavventure. Oggi si è sentita male una signora con un bigodino, e Trenitalia, nella figura del personale a bordo, ha pensato di fermare il treno ed evacuarlo. Cioè di buttare fuori tutti i passeggeri tranne la moribonda, che hanno fatto stendere nell’ampio spazio fra un vagone e l’altro, per terra e con le gambe all’insù sulla porta, in attesa del 118. Non sarebbe stato più logico il contrario? Non dico di abbandonarla sui binari, per carità, ma trovarle una collocazione confortevole in stazione senza dover bloccare un treno pieno. Con tutto il rispetto per la moribonda eh.
Quindi, cari amici miei, o mi regalate un’auto a km 0 – cercatela pure qui, può andar bene la Ferrari dell’immagine – oppure sarò costretto a recuperare il mio scassone dal garage di villa Madre, a L’Aquila, e condurlo di fronte casa mia, l’unica zona di Firenze dove striscia blu sta per: Parcheggia tanto qua i vigili non passano mai.
Voglio segnalarvi due cosine letterarie, tanto per rimarcare che io con l’editoria c’entro comunque qualcosa. Ho letto “Come vivevano i felici” di Massimiliano Governi, una favola nera dove i soldi contano più degli affetti. Mi è così piaciuto che l’ho recensito su SoloLibri, qui. E poi ho intervistato nientepopodimenoche – rullo di folcloristici tamburelli – Matteo B. Bianchi, autore del romanzo supercult “Generation of love” e di molti altri, ma non solo. Ad esempio, lo sapevate che è stato fra gli autori di “Victor Victoria” su La7 e “Quelli che il calcio” su Rai2? L’intervista la trovate qui.
Sono appena tornato a casa, quando posso evito l’autobus. Firenze è bella da passeggiare pure con la pioggia, e poi attraversarla a piedi me la fa conoscere. Ne scopro un pezzettino di più ogni giorno. E’ il mio modo di capire, faccio così anche con le persone: a poco a poco.
La padrona di casa possiede tre palazzi (non appartamenti – badate bene – palazzi!) completamente affittati. Quando il 5 del mese vado da lei per l’affitto la trovo seduta dietro a un tavolo di vetro grande come la mia stanza, in uno studio grande come la casa intera, che trasuda ricchezza da tutti i pori del legno lucido del parquet. Per lei non contano i soldi, è più importante che gli inquilini restino per l’intera durata del contratto, per non dover vivere la scocciatura di cercarne di nuovi. Così abbassa i prezzi e son tutti più contenti. Certe volte l’altrui ricchezza può rappresentare una fortuna.
Le mie giornate sono scandite dalla scrittura e dalla ricerca del lavoro. Il weekend esco un po’ di più. Sapevo che sarebbe stata dura, che nessuno qui stava aspettando me a braccia aperte per offrirmi un buon contratto, e le mie sensazioni non sono state tradite. Non è dura, è durissima.
Stamattina ho parlato col direttore editoriale di una bella casa editrice di Firenze. Mi ero proposto per uno stage e lui, nonostante il rifiuto immediato, mi ha voluto incontrare. Abbiamo chiacchierato poco. Gli ho domandato com’era andata al Pisa Book Festival. Mi ha detto che il venerdì non c’era nessuno. Sabato e domenica un po’ meglio. In casa editrice sono in quattro e presto una ragazza dovrà andare via perché non ce la fanno. Stage gratuiti non ne fanno – sì, l’avrei fatto – perché non vogliono prendere in giro nessuno. Io sono molto bravo, mi ha detto, ma niente da fare per ora.
Ho scritto questo post principalmente per parlarvi di un’esperienza bellissima. Ho partecipato a Torino Una Sega 3. Si tratta di un reading al Caffè Notte, in zona Santo Spirito, organizzato da Firenze delle Letterature, un gruppo di scrittori legati alla città di Firenze che si impegnano per la promozione della cultura e della lettura. Ho letto un estratto di Mai abbastanza lontano da me, uno dei racconti della Valigia. C’era molta gente, anche nomi di rilievo nazionale (Vanni Santoni, Francesco Recami, Antonio Moresco, Carolina Cutolo). Era un po’ che non leggevo qualcosa di mio in pubblico, e mai a Firenze. E’ stato eccitante. Appena finito di leggere, un ragazzo si è avvicinato, mi ha stretto la mano e mi ha detto: – Grande! – e io sono tornato a casa felice, alle 3 di notte, sotto il diluvio.
Ieri mi hanno segnalato che il blog dei mitici Scrittori Precari ha pubblicato il mio estratto. Sorpresa! Potete leggerlo cliccando QUI.
Nei prossimi giorni m’impegnerò ad aggiornare più spesso il blog. Ho bisogno di raccontarmi cosa sta succedendo alla mia vita. Può essermi utile per comprendermi meglio, vedermi attraverso i miei occhi, e leggermi come se fosse la storia di qualcun altro a cui dare un buon consiglio.
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Domani sarò in viaggio per Firenze con la macchina carica fino all’inverosimile. Mi trasferisco. Domani… mioddio! Ora che l’ho scritto sembra più vero. Forse per questo ho sentito il cuore fermarsi e un vuoto improvviso simile a quelli in aereo. Mi sa che non se l’aspettava nemmeno il mio stesso organismo. Da me che sono sempre il solito: parlo, parlo, dico che farò, che andrò, che lascerò, ma alla fine resto sempre fermo dove sto, a lamentarmi. Stavolta ho preso una decisione e l’ho fatto in frettissima e con una facilità spiazzante. Almeno è quanto potrebbe pensare chi non mi conosce bene. La verità è che era tutto stabilito da anni. Dopo la laurea verrò a Firenze a cercare fortuna.
Quante volte l’avrò detto ai miei amici. Poi ha fatto il terremoto, poi sono passati cinque anni, ma il mio piano è sempre rimasto lo stesso. Avrei dovuto concludere gli step precedenti molto prima. Questa è la mia principale colpa, alleggerita dalla consapevolezza di essere stato bravo, quest’anno, a chiudere il cerchio. Perché non è mica detto che uno le tappe le supera sempre. Puoi anche restarci bloccato una vita, come al livello finale di un videogame che a un certo punto lasci perdere, e io non ho lasciato perdere.
Appena mi sono laureato è scattato l’interruttore per il passo successivo. Mi sono tappato le orecchie, pure quelle della mente, per non sentire nemmeno un pensiero. Ho costruito una barriera filtrante tra le mie decisioni prese e il mondo esterno. I dubbi degli altri, i consigli di fermarmi a riflettere, le paure per me, sono andati a sbattere tutti contro la barriera, e si sono sgretolati perdendo la loro energia. Mi sono licenziato per laurearmi. Mi sono laureato per andarmene e cercare lavoro fuori. Non potevo davvero interrompere questa catena di scelte coraggiose proprio quest’anno, il primo della mia vita in cui ha veramente funzionato tutto. Probabilmente non sarò così bravo e fortunato anche stavolta, e ci ritroveremo qui, fra un anno, a parlare di un’altra storia, di un’altra città, di nuovi obiettivi, ma una cosa è certa: non potevo davvero non provarci. Sarebbe rimasto il mio peggior rimpianto.
A fine agosto ho passato una settimana a Firenze per cercare casa, ospite dei miei amici carissimi che si fanno sempre in quattro e, se serve, in otto per me. Non torno a L’Aquila finché non la trovo, mi dicevo in treno durante l’andata. Solo che le cose sono sempre molto diverse da come te le immagini. La mente tende a semplificare, e io pensavo di vederne quattro o cinque e scegliere fra quelle la meno peggio. Contavo di sbrigare la faccenda in tre giorni e offrire da bere a tutti. Insomma, stavo facendo il passo del secolo, che importava della casa? E invece no, perché in quella casa ci devi stare, con quegli sconosciuti ci devi vivere, e poi non avevo considerato il fattore selezioni. A Firenze, ma mi dicono un po’ ovunque, non sei quasi mai tu a scegliere la casa, ma è la casa che sceglie te. Se non le vai bene, puoi desiderarla quanto vuoi, quella casa lì non l’avrai. Sono stato rifiutato da tanti begli appartamenti. Non ho superato la selezione dei ragazzi che li abitavano, e che si trovavano a scegliere fra decine e decine di candidati per un unico posto letto. Fra i pretendenti c’era sempre qualcun altro più carino, più sorridente, vestito meglio, più giovane e con più capelli di me. Non che ci volesse molto, ecco. Poi, se gli dici che scrivi, si fanno subito l’idea del fallito disgraziato che vive di stenti e magari gli fa lo scherzetto di non pagare l’affitto.
Una ventina di stanze le ho lasciate stare solo in virtù di sensazioni non legate a niente. Avete presente quando vi trovate in un luogo e vi sentite tremendamente a disagio? Altre per la zona troppo distante da tutto, o per una coinquilina che ha indugiato su di me con lo sguardo schifato e in pena che si riserva a un cucciolo di tarantola che sta morendo agonizzante, o perché l’appartamento si trovava al ventesimo piano sotto terra e per raggiungere la superficie e vedere la luce bisognava prendere l’ascensore. Un’altra aveva un asilo adiacente, e le rassicurazioni del padrone non mi sono bastate: – Dopo le 18 la situazione si calma.
Non è che uno, per non impazzire, può ibernarsi e scongelarsi dopo le 18, voglio dire. Ma vi voglio narrare l’esperienza più ai confini della realtà di questa ricerca disperata. Già l’annuncio non era per niente foriero di buone sensazioni, in particolare la riga: in casa abitano svariati ragazzi e ragazze + due cani. Non mi preoccupavano tanto i cani – io ce ne ho tre, figuriamoci! – quanto quel svariati, come se fosse un numero indefinito e neanche piccolo. Come se comportasse troppa fatica, per chi ha scritto l’annuncio, farsi un conteggio di quanti fossero realmente gli inquilini. Comunque, visto che il prezzo della singola era molto basso – io, immerso nel mio pietoso pozzo di ingenuità, ho creduto fosse per i due cani – decido di andarla a vedere. Ero con Linda, una dolce fanciulla carina, curata, educata e delicata. Ci troviamo di fronte uno spettacolo macabro e stupefacente, inteso nel suo significato più hippie: una specie di casa degli orrori, un mix fra Amore tossico di Caligari, Trainspotting e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. A farci da guida in quel labirinto di stanze cupe c’era un giovane che già dal mattino dimostrava visibilissimi segnali di annebbiamento. Ma lui il mattino in quella semioscurità mi sa che non lo vede mai. Mi mostra la stanza e mi dice: – Non fare caso al disordine, poi aggiusto tutto.
Il disordine in questione sembra il risultato di un’eplosione seguita da un abbandono durato mesi. Ma come fa a vivere in quella stanza? Travi spezzate a terra, sporco di ogni entità e genere, accumuli di materiali difficili da identificare.
Ma quello che mi turba sono tre teste di bambola appese all’armadio, e questo sarà un tema ricorrente della visita. Teste di bambola appese dappertutto: in cucina, sul balcone e lungo il corridoio che era la versione deteriorata di quello di Shining.
Lui apre una porta e dice: – Lì ci sono due coinquilini – indicando un letto su cui si vedono due corpi seminudi stretti nella penomba. Avanzo subito superando la stanza. Me ne voglio andare da qui. Dov’è la porta? Linda sta dietro di me che procede muta e col terrore nello sguardo.
– Sei viva? – le domando sottovoce. Potrei anche urlare tanto il tipo non mi sente, perché non abita la nostra stessa realtà. Lei mi rassicura con un cenno della testa.
– Quello è il bagno! – fa lui.
Una scritta rosso carminio su una porta avverte: HORROR BATHROOM. Ora ci chiudono là dentro e ci tagliuzzano con una lametta, penso. Mi volto da un’altra parte a caso e incontro altre teste di bambola impiccate. Tagliamo corto, salutiamo, scappiamo.
Dopo una settimana di ricerche inconcludenti, più di trenta case viste, non so quanti chilometri a piedi fatti – Maps, grazie di esistere! – non avevo trovato una, che fosse una casa accettabile, giusta. Sono arrivati i momenti di sconforto. E proprio nel giorno peggiore, o almeno così sembrava – le persone non rispondevano agli annunci, non ne trovavo di nuovi, e poi ci sono quei giorni in cui esplode tutto il malumore insieme, e si è messo pure a piovere forte – ho trovato la mia stanzina. E’ piccola, ma non troppo, in un appartamento di tre singole, con altri due ragazzi lavoratori – dico altri come se anch’io lavorassi – in zona Campo di Marte, centro raggiungibile a piedi, costo inferiore al buco del demonio pocanzi descritto. Ho sentito una grandissima felicità esplodermi dentro, come se per tutta quella settimana fosse rimasta chiusa in una membrana in attesa di nascere.
Domani andrò a svuotare la mia vita in un’altra casa. Sono terrorizzato (e felice). Ci aggiorniamo da Firenze, questo è certo. Allora vado. Ok, sì… vado eh!
Breve e indispensabile premessa per voi che vi accingete.
Contro ogni insegnamento della guida per tenere incollato il lettore virtuale della generazione 2.0, ho scritto un post lunghissimo. Probabilmente il più lungo in 10 anni di blogging. Scrivo qui direi soprattutto per rileggere e ricordare, e questo post è uno di quei casi. Serve più a me che a voi, insomma. Doveva starci dentro tutta un’intera settimana, e comunque non ce l’ho fatta. Chi non ha tempo, non ha voglia, non fa niente. Ci si rilegge al prossimo. Pronti, via!
Dopo l’ultimo post pre-crociera e il lungo silenzio che ne ha fatto seguito avrete già rimosso il blog dalla lista dei vostri preferiti e mi avrete sostituito col primo Federico Moccia dell’internèt passato di lì per caso. E invece no, non sono stato risucchiato dai flutti tempestosi con tutta la nave Costa Favolosa, che è riuscita a rispondere con carattere a una nottata di mare forza 7. Stesso non dicasi per le signore, che ruzzolavano per le scalinate scintillanti così come i bicchieri dai tavoli, mentre io, gustando l’insalata di gamberetti e seppioline, pensavo: ecco, è arrivato il mio momento.
La vacanza è stata baciata dalla buona sorte di conoscere la Giada e la Ilaria già dalla seconda sera: due biondone pazze scatenate che il caso ha collocato al nostro tavolo e che, da quella cena in poi, non sono più riuscite a fare a meno di noi, e noi di loro.
Abbiamo:
Condiviso colazione, pranzo, cena, merenda, spicchi di pizza alle 5 del pomeriggio e alle 3 di notte, cappuccini, caffè ristretti, lunghi, al vetro, americani, shakerati, mojito, margatita frozen, plunter’s punch, amari, vini, birre, succhi di frutta, cocktail analcolici e una lunga serie di altri liquidi più o meno colorati e dissetanti. La card All Inclusive Bevande di Costa Crociere dovrebbero farla Patrimonio dell’Umanità.
Mangiato in ogni momento e luogo della nave. Un po’ dolce, un po’ salato, un po’ carnivoro, un po’ vegetariano e un po’ gluten free.
Sparlato delle due famiglie mummie che condividevano con noi il tavolo… e basta. Non comunicavano con noi, non comunicavano fra di loro e… non comunicavano moglie, marito e figlia all’interno della stessa famiglia! La felicità negli occhi, proprio. Ehm… ciao! (Magari mi leggono e allora… il saluto non si nega a nessuno.)
Vissuto intrighi a bordo super top secret e che tali devono rimanere. Patto di sangue, giurin giurello, se no la carriera di qualche ufficiale se ne va a mare. Quindi sorvoliamo velocissimamente e passiamo al prossimo punto.
Visitato La Valletta (Malta), Catania e Napoli. A Barcellona non ci conoscevamo, e a Palma di Maiorca non eravamo ancora abbastanza intimi per uscire insieme. Seguono approfondimenti sulle principali tragicommedie che si sono consumate, più o meno suddivise per escursione.
Visto il tramonto più pieno di emozioni e di tinte di rosso che mi sia mai capitato. Mare aperto, vulcano Stromboli, il fumo che si mescola alle nuvole sulla cima, il sole che si nasconde dietro al monte, il cielo rosso che colora pure il mare. Noi appoggiati al bordo del ponte. Una tizia che, per fare la foto migliore di tutti i tempi, si arrampica su una cassa di metallo e per poco non se ne va di sotto.
Apriamo il capitolo escursioni: troppo sole! Forse qualche sentore bisognava farselo venire dal nome della crociera, che era appunto La crociera del sole. Però da qui a dire che avremmo rischiato il coma ce ne passa! Il coma solare è la fase che viene dopo l’insolazione, cioè quando tu, nonostante ti senta completamente svalvolato, continui ad assorbire radiazioni ultraviolette tuo malgrado, perché non puoi fare altrimenti. Non esiste un modo per fare il buio, mica è una lampadina! Non hai un cappellino, non hai un ombrellino, non c’è una tettoia nel raggio di 40 chilometri. Ti senti completamente impotente, così ti sacrifichi, rinunci alla lotta, ti concedi al tuo destino.
Abbiamo iniziato la visita di Barcellona con una grande idea: raggiungere la città dal porto a piedi. Di 4mila persone a bordo della nave, io e Luca gli unici! Abbiamo ingaggiato una lotta estrema contro il sudore, per non affogare. A metà strada parevo un super mocio vileda revolution da strizzare. Luca tentava con una salviettina, con la quale si tamponava l’attaccatura della testa, e non parlava più. Di Barcellona ricordo con gioia il succo al kiwi del mercato Boqueria fresco fresco, che mi ha restituito la vita. Con un po’ meno gioia la bottiglietta d’acqua da 0.33 davanti alla Sagrada Familia pagata 2 euro, che la vita me l’ha tolta. L’avete mai vista una bottiglietta d’acqua da 0.33? Io prima di allora mai. E’ così… piccola! Sembra il campioncino di un profumo. Ci siamo fatti un po’ sballottare dalla gente sulla Rambla, abbiamo passeggiato davanti a Casa Batllò e La Pedrera, abbiamo preso la metropolitana rischiando anche lì di non uscirne. Quei sotterranei parevano la vita su Marte: mancava la terra rossa, l’ossigeno, e per poco non mancava pure la vita. Nei centri commerciali si stava bene, freschi, in piedi però. Abbiamo osato appoggiare 3 minuti il culo sul pavimento – cosa sono le panchine per i catalani? La casa del demonio? – è arrivata una poliziotta e ha intimato: – Stand up! – con un tono perentorio che ho temuto le partisse una pallottola.
Palma di Maiorca è… calda! Dopo un breve giro turistico di circumnavigazione della modesta cattedrale di Santa Maria (appena 120 metri di lunghezza, 70 di larghezza e volte alte 44 metri, le più alte del mondo, leggo. Insomma, gira e rigira sempre lì ci ritrovavamo) siamo andati in spiaggia. Una spiaggia vera, di sabbia, non altrettanto dicasi per il mare che Luca guardava con sospetto dal suo telo, mentre io, amante del trash (spazzatura) mi sono tuffato fra scatolette di panna da cucina, carte e cartacce e cartine, pezzi della qualunque, oggettistica varia galleggiante, correnti schiumose dai colori variopinti. Dal torbido più profondo lo incitavo: – Dài che a largo… la monnezza non si vede!
La Valletta è la capitale di Malta o dell’Africa, che dir si voglia. (Che caldo!) La città si colloca molto in alto rispetto al porto, e per colmare il dislivello hanno pensato bene di costruire un ascensore panoramico. Ecco, io non ho mai provato tanta compassione come per i 2 addetti. Questi signori sfortunati hanno il compito di ritirare l’euro dalla mano del turista, inserirlo nella fessura della macchinetta, schiacciare un pulsante e consegnargli il ticket. Tutto ciò a una temperatura media di 500 gradi, senza un’ombra a pagarla, intrappolati in una divisa pesante che alla sola vista manca l’aria, con miliardi di gocce di sudore che si riproducono sulla fronte e colano sulle guance, e l’espressione che varia da: maledetti turisti, fate qualcosa per me, disgraziato bigliettaio maltese! a: voglio morire now! Li ho osservati in quei 2 o 3 minuti di pazienza che arrivasse il mio turno, mentre mi sentivo ardere vivo dall’aria rovente dell’inferno, e ho pensato che loro in quell’aria ci lavorano per ore. 2 parole si sono materializzate in carattere gigantesco e grassetto davanti ai miei occhi: Dio e mio.
Malta è gialla e solare. Avete presente i miraggi nel deserto? Ecco, Malta è il deserto. Il miraggio era un bar con la connessione Wi-Fi dove ci siamo rifugiati, abbiamo bevuto, aggiornato i nostri status sociali, ci siamo scattati qualche foto, aggiunti agli amici, scambiato i numeri di cellulare. Insomma, non sapevamo più che inventarci per restare al fresco dell’aria condizionata. La nostra escursione ha subito una svolta quando la Giada ha avvicinato il tassista Carmelo facendo sfoggio del suo Inglese molto fluently, direi almeno livello C1 (?!), e lo ha convinto a portarci in spiaggia per 20 euro. Durante il viaggio di andata, nel generale silenzio dell’abitacolo, lei è stata capace di sbobinare le più gettonate espressioni dei dialogs nei libri delle vacanze delle medie: lesson one e lesson two, fino al culmine toccato da una domanda chiave: – Do you stay in Italy?
Io ho cominciato a ridere dentro e non c’ho capito più niente, come pure il povero Carmelo che, dopo un attimo di sbandamento (sto a Malta o sto in Italy? Boh!), ci ha preso così in compassione da venirci pure a riprendere dopo la giornata in spiaggia. Spiaggia… va be’. Diciamo più una distesa di pietrisco su cui stavano adagiati milioni di corpi a distanza ravvicinatissima che discorrevano del più e del meno in perfetto napoletano.
Catania è una città gentile: i negozianti ti salutano col sorriso, i baristi decantano le qualità delle granite e dei loro dolciumi capitanati dai leggendari cannoli. Nessun sapore al mondo potrà mai più generare alle mie papille gustative l’estasi di quel cannolo ricoperto di praline al pistacchio col quale abbiamo fatto colazione (assieme a 15 granite). Continuavamo con le granite come se non ci fosse un domani. Al momento di pagare il conto, la signora in cassa ha ripetuto l’ordine con gli occhi sgranati domandandoci più volte: – Siete soltanto in 4, giusto?
Catania è una città gentile sì, tranne quando scoppiano le scazzottate. Siamo stati testimoni oculari vicinissimi di ben 2 risse in 4 ore. La prima a Piazza del Duomo, vicino alla Fontana dell’Elefante. Eravamo appena arrivati, tentavamo di orientarci, un gentile signore con gli occhiali si avvicina con una certa finta modestia e ci invita ad andare a vedere il Palazzo dell’Università, con la seguente motivazione: Quella di Catania è la più antica università d’Italia. Un signore panciuto poco distante capta le parole dell’occhialuto e non riesce a non intervenire: -Devo precisare che la più antica università d’Italia è quella di Bologna.
Insomma, quella che pareva un’amichevole discussione ricca di spunti culturali si accende, i toni si elevano, le mani si alzano, quei 2 si staranno ancora ammazzando di botte. Noi scappiamo verso via Etnea con un solo pensiero: cosa indossare per la serata in nave? Vi può sembrare una questione di scarsa importanza, ma vi assicuro che sulla nave acquista i connotati di un’emergenza. Dopo la serata di gala non ci aspettavamo una seconda serata definita elegante. L’imperativo è: mai e poi mai presentarsi con roba già indossata in uno dei giorni precedenti! E ora? Per la Ilaria e la Giada nessun problema: hanno pensato bene di dedicare un’intera valigia a testa agli abiti da sera. Io e Luca siamo entrati nel panico. Ho risolto con una polo sull’azzurro presa in un negozietto d’alta moda, va be’… di moda, diciamo. Grande entusiasmo, grande spesa, faccia di Luca perplessa: – Ma tu la conosci la marca del tuo nuovo acquisto?
– No! Ma io con la moda zero. Sarà uno stilista noto.
– Molto noto sì… A Catania e provincia!
La seconda rissa si svolge dentro e fuori una rosticceria, mentre divoriamo come cani idrofobi una gigantesca arancina ripiena di riso e ragù.
– Te ne devi andare! – grida il proprietario uscendo dal bancone, e si avventa contro un individuo che voleva consumare senza pagare. Si percepisce che quell’ometto basso, col braccio che gli finisce al gomito e una vistosa maglietta verde prato, che gli urla contro: – Bastardo! Bastardooo! Sei un bastardoooo! – dev’essere una sua vecchia conoscenza. Smetto di masticare quando il matto verde si volta verso di noi e ricomincia: – Bastardiii, siete dei bastardi! Tutti bastardi!!!
A quel punto il proprietario lo spinge fuori, lo prende per il colletto o quello che è, e lo trascina all’interno di un tetro vicolaccio laterale.
– Stai menando a un invalido! Bastardoooo! Ahhhhhh ahiaaaaaaaaaaa! – (Urla disperate nel buio)
All’arrivo di una volante della polizia mi sento dentro a una puntata di Pupetta, il coraggio e la passione. Ci allontaniamo quando l’ometto, affannato per la colluttazione ad armi impari, ci fissa ancora ed esclama: – Voi dovete testimoniare, quell’uomo mi ha menato. Sono un invalido! Ditelo alla polizia… bastardiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!
Napoli! Qua devo fare un bel discorsetto. Tutti a parlar male dei napoletani, che sono rubacchioni, che sporcano, che si distinguono dalla puzza, che ‘nzi capisc niend quando parlano. Macché! Niente di tutto questo! I napoletani dovrebbero balzare alla cronaca quotidiana per la loro innata propensione all’organizzazione. Dev’essere proprio parte del patrimonio genetico di questo popolo laborioso, se no non si spiega. Abbiamo aspettato 45 minuti sotto il sole che ci facessero salire su un City Sightseeing, che sono quegli autobus rossi a due piani scoperti che fanno il tour della città. Quando finalmente hanno deciso che c’era posto per noi, siamo rimasti un’altra mezz’ora (sotto il sole) ad aspettare che il bus si riempisse. Io già cominciavo ad avere le prime allucinazioni, ma non potevo immaginare quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Il bus parte per l’itinerario golfo. Cumuli di particelle di vapore danzavano una coreografia di Garrison davanti ai miei occhi. I contorni delle cose tremavano, compreso il Vesuvio. Tanto che a un certo punto ho tremato pure io: non è che si riaccende ed esplode l’ira di Dio, no? Alla fine del primo itinerario si sentiva un forte odore di pollo bruciacchiato che arrivava dalla mia delicata capa spelacchiata, i capelli delle ragazze si erano schiariti di due tonalità virando al bianco, la pelle della faccia di Luca aveva completato la trasformazione chimico-fisica fino allo stato di materia del carbonio 14 purissimo. La Ilaria approfitta di una breve sosta per saltare giù e sparisce fra le stradine partenopee. Nessuno sa dov’è, il bus aspetta soltanto lei. Decine di persone incarognite, legate ai posti ad ardere vive – qualcuno intanto muore – ci guardano. Ma che volete? Ilaria torna su col suo bel sorriso e un sacchettino con bottigliette d’acqua e panzerotti alla ricotta che ci permettono di affrontare il secondo tour all’interno della città.
Napoli ha riconquistato in un attimo il mio amore perduto quando ho azzannato lo spicchio di pizza bianca con la mozzarella di bufala. Certo che, se organizzassero i giri turistici con la stessa attenzione che dedicano alla vendita abusiva degli ombrellini parasole forse alla fine dei tour City Sightseeing si conterebbe qualche superstite in più.
E’ anche vero che se io avessi ceduto alle mie questioni di principio e me ne fossi accattato uno, quasi sicuramente non sarei andato incontro alla desquamazione tipica dei rettili, che ha caratterizzato la mia alta fronte nei 2 giorni successivi.
Il 12 agosto a Savona è finito tutto. Avete presente lo spot con la tipa depressa in vasca da bagno? Ecco, io ci ho impiegato un mese esatto a riprendermi dalla tristezza per l’abbandono di quella vita che a un certo punto ho pensato dovesse durare per sempre. Povero illuso!
A ottobre la Ilaria e la Giada verranno a trovarci a Firenze. Ci sarò anch’io, e da un po’. Ma questa è un’altra storia che, alla luce della frequenza con cui ultimamente sto aggiornando il blog, spero di raccontarvi prima di Natale.
– Ah, quanti luoghi vorrei visitare! Non mi bastano gli anni che mi restano per vederli tutti! – esclama Madre sospirando davanti alle splendide immagini subacquee di Linea Blu su Rai1. Pesci variopinti dalle dimensioni vagamente inquietanti si muovono sullo schermo mentre la voce della fortunata giornalista addetta descrive il paesaggio sottomarino. I coralli, piccoli animali costruttori delle antichissime barriere coralline…
– Ma da quando in qua i coralli sono animali domestici?
– Madre, non ha detto domestici. Sono animali piccolissimi con dei tentacolini, che si costruiscono delle tane calcaree tipo conchiglie, che nei secoli si moltiplicano fino a diventare le barriere coralline.
– E fino a diventare le collane di quelle stronze delle colleghe mie.
Sono nato a L’Aquila nel 1981. Adesso vivo a Firenze, insegno ai bambini della scuola primaria e scrivo romanzi definiti “per bambini e ragazzi”, ma io dico non vietati agli adulti…
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