Quando ancora tutti noi speravamo di ritrovare Massimiliano Giusti vivo, Paolo Scimia, il suo compagno di scalata miracolosamente scampato alla furia della montagna, è stato sentito per ricostruire le dinamiche di quella domenica da dimenticare.
Non ho mai lasciato solo Massimiliano, sono vicino alla sua famiglia e aspetto presto notizie confortanti, aveva detto ancora scosso dalla paura. Segue il suo racconto, così come l’ha fatto agli investigatori.
Domenica mattina ho incontrato Massimiliano intorno alle ore 8.10 a Fonte Cerreto e abbiamo preso la funivia delle 8.40. Siamo arrivati a Campo Imperatore e abbiamo iniziato la camminata per raggiungere il Corno Grande. Alla Sella di Monte Aquila abbiamo messo le pelli foca sotto gli sci per camminare sulla neve, poi siamo andati verso il Sassone. Durante questo percorso Massimiliano non aveva un passo velocissimo, ma sembrava tranquillo. Gli ho chiesto più volte come si sentisse e mi ha risposto che non aveva problemi. Dal Sassone all’attacco della via direttissima che porta sulla vetta del Corno Grande bisogna togliere gli sci e proseguire a piedi. Ho visto Massimiliano affaticato e, preoccupato, gli ho detto di fermarsi in caso di crampi. Egli mi ha rassicurato che si sentiva solo le gambe stanche. Lungo quel percorso gli ho fatto quella domanda ogni 5 minuti. All’attacco della direttissima abbiamo mangiato, poi mi ha detto che non voleva salire ulteriormente. Abbiamo quindi preso appuntamento al Sassone: io sarei salito, mentre lui sarebbe tornato giù. Quando mi sono girato però stava mettendo i ramponi: aveva cambiato idea. Un rampone gliel’ho agganciato io, continuando a ribadirgli che se avesse avuto i crampi si sarebbe dovuto fermare. Siamo poi partiti alla volta del Corno Grande sul Gran Sasso intorno alle ore 11.30 e abbiamo continuato per la prima mezz’ora a distanza di 10 metri l’uno dall’altro, senza mai perderci. Io avanti e lui dietro. Quando la salita si fa più ripida bisogna imboccare un canale stretto. Sono andato avanti e ho visto che dall’alto cadevano ghiaccioli pericolosi. Mi sono preoccupato, ho detto a Massimiliano di mettersi il casco, allacciarlo e aspettare. L’ho distanziato e ho urlato di fermarsi e andare indietro fino al Sassone. Non lo vedevo ma lo sentivo, mi è sembrato che avesse capito anche perché erano cose che avevamo pattuito prima della salita. Non potevo tornare indietro, altrimenti avrei rischiato di fargli cadere addosso dei blocchi di ghiaccio. Ho pensato di andare in vetta e con gli sci di raggiungere poi il Sassone dove mi doveva aspettare Max. Arrivato sul Corno Grande ho visto che dalla parte di Teramo era sereno, mentre sul versante aquilano c’era nebbia. Se fossi stato da solo sarei passato dalla parte di Teramo per arrivare con facilità al rifugio Franchetti. Ma poiché avevo appuntamento con lui ho preso il canale Bissolati, ho sciato dentro una slavina fino alla fine, per evitare crolli di neve. Arrivato alla fine del canale sono andato verso il Sassone per rincontrare Max, ma la visibilità era pari allo zero e lui non c’era. Sono sceso più in basso all’attacco del canale che porta a rifugio Garibaldi. Ho aspettato che il telefono prendesse e ho chiamato in primis il 118 nella piena bufera e ho spiegato tutto. Poi ho sentito Max e gli ho chiesto dove stava, mi ha risposto che aveva raggiunto il Corno Grande. Abbiamo discusso, evidentemente non c’eravamo capiti. Gli ho detto di non muoversi e aspettare i soccorsi. Ho raggiunto il rifugio Garibaldi, ma da un lato era chiuso con un lucchetto, alla finestra c’era la grata, ho scavato la porta principale sommersa di neve, ma anche questa era inaccessibile. Ho quindi formato una buca davanti alla porta del rifugio dove mettermi ad aspettare. Lì il telefono non prendeva e per dare notizie dovevo fare un tragitto di mezz’ora di cammino nella bufera. Ogni ora sentivo i soccorsi che mi dicevano di non perdere la posizione. Tornavo giù nella buca che la neve aveva puntualmente ricoperto e mi muovevo in continuazione per cercare di non congelare. Alla seconda telefonata con i soccorsi mi hanno detto che sarebbero arrivati entro un paio d’ore. Successivamente mi hanno riferito che erano bloccati da una bufera. Ho pensato che in quelle condizioni non avrei potuto superare la notte. Si erano fatte le 20.30 circa. Ero là dalle 14, ma non arrivava nessuno. Volevo aspettare Massimiliano che con gli sci sarebbe dovuto passare necessariamente su quella strada. Quando è sceso il buio mi sono sentito perso, ho pensato che non ce l’avrei fatta. Ho visto il chiarore della luna nella bufera e ho deciso di risalire al rifugio Duca degli Abruzzi, dove sono arrivato alle 22.30 circa. A quell’ora ho visto da lontano le torce degli uomini della Guardia di finanza che mi stavano cercando. Appena arrivato al rifugio, ho comunicato la mia posizione, ho preparato un tè e assunto dello zucchero. Dopo una mezz’ora mi hanno raggiunto i militari della Guardia di finanza, e solo più tardi il medico del Soccorso alpino.
Da quanto emerso, Massimiliano deve aver deciso di non aspettare i soccorsi in cima, come gli aveva ordinato il suo amico. Ha provato a tornare giù da solo, probabilmente spinto dallo stesso spirito di sopravvivenza che aveva indotto Paolo a proseguire fino al rifugio Garibaldi. La scarsissima visibilità e la poca conoscenza della zona devono aver giocato la terribile mossa che l’ha fatto precipitare per 300 metri nell’area che, per quei passaggi molto stretti costeggiati dagli strapiombi, è denominata Valle dell’Inferno. Da entrambe le parti il medesimo coraggio nell’affrontare il pericolo che decide 2 destini agli antipodi: di vita, miracolo, gioia, l’uno; di morte, sfortuna, passo falso, l’altro. Mando un abbraccio virtuale consapevole dell’inutilità, ma sincero, alla sua compagna Raffaella e a Camilla, la loro bimba di 5 anni.
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