Ieri l’attuale Presidente del Consiglio (tecnico) Mario Monti, a una certa ora, è atterrato col suo Falcon 90 all’areoporto di Preturo, a 300 metri da Villa Madre, e io non lo sapevo. Non che debbano telefonarmi per informarmi degli spostamenti del monte Mario – se L’Aquila non va al monte, il Monti va a L’Aquila – però che nessun telegiornale nazionale dia la notizia fra le principali né le secondarie mi pare molto strano, tenuto conto della solerzia con la quale ci informano delle lacrime di quella – ah no, è solo un po’ di congiuntivite stavolta – e della paccata di miliardi di quell’altra, che è sempre la stessa. Monti viene a L’Aquila con la moglie Elsa e mezzo governo al seguito, e nessuno lo dice. Sarà mica colpa della parola L’Aquila, sulla quale aleggia il tacito divieto di pronunciarla davanti a una telecamera come crociera, Isola del Giglio, Costa Concordia, moldava, scoglio e scivolato-nella-scialuppa, se hai appena pescato la carta di Francesco Schettino in una serata in allegria passata a giocare a Taboo. A L’Aquila, soprattutto nelle settimane successive all’aprile di quasi 3 anni fa ormai, è venuta tanta di quella gente a portare parole di compassione che c’è mancato poco mi convincessi di vivere al Cottolengo di Torino, dove si narra che, oltre ai poveracci nati con inguardabili malformazioni, vi siano segregati, in cunicoli sotterranei, mostri ottenuti attraverso l’accoppiamento forzato fra donne e animali come cani e cavalli. Insomma tutti a piangere lacrime di gomma per la sventura capitata al forte e gentile popolo di pastori aquilani. Ogni volta pareva un funerale nuovo. Pure il Papa, con un impercettibile ritardo di un mese rispetto ai suoi colleghi George Clooney per l’America e Carla Bruni a rappresentare la Francia, candido come la colomba della pace, come la fumata di quel benedettissimo giorno dell’Habemus, come una sposa in posa davanti al ristorante; ha sollevato le mani per fare la magia; tutti hanno chinato il capo per beccare qualche effluvio miracoloso, ma nessun effetto sulle loro vite né tantomeno sulle loro morti, né ho ammirato qualche palazzo ricostruirsi per la sola forza dell’energia dell’amore papale; poi è tornato alle sue stremanti occupazioni quotidiane, per esempio il ribadire che i profilattici sono pericolosissimi. Sento che sto per partire con un pippone sul Papa racchiuso fra parentesi quadre che potete saltare se oggi vi siete fatti la comunione. Ormai è tardi per fare retromarcia e allora avanti tutta! [Mi capita di domandarmi: Ma a cosa serve costui? e poi mi domando pure: Quali differenze sussistono fra Benedetto XVI e la regina Elisabetta d’Inghilterra, tanto per nominarne un’altra di quelle? Se ci pensate hanno un sacco di cose in comune quei 2, a partire da quel loro saluto distante, gelido come il rapporto fra monarca e plebeo. Sarà una supponenza pure involontaria, per carità, però arriva. Qualcuno glielo dica che rischia di trasmettere molteplici messaggi non corrispondenti a verità, certamente:
– Io vivo in un palazzo e tu in una stamberga;
– Io ho 450 servitori e tu non sei degno di servirne uno e, non si sa perché, ma brucerai fra le fiamme;
– Io mi affaccio dalla finestra, ti saluto e rientro subito a mangiare e bere, e tu aspetti ore il mio saluto, poi torni a casa e non mangi perché hai dovuto pagare la benzina e le tasse sull’unica tua proprietà e su un sacco di altre cose. Le hai pagate pure per me e mi hai fatto la spesa cosicché io possa riempirmi la pancia e sparare a zero su ciò che proprio non arrivo a comprendere perché, nonostante i tanti decenni di studio, sono una persona profondamente ignorante della vita vera, che poi è quella che ho la faccia di insegnare al mondo;
– Io sparo una cazzata carica a 1000 di inciviltà e tutti i tiggì la portano a esempio;
– Padri e madri seguono i miei dettami di violenza, disprezzo, razzismo – non c’entra niente col cognome che porta – mentre tu non vieni ascoltato neppure dalla tua di madre, che però ascolta me, uno sconosciuto parlante col mantello d’ermellino e la faccia cattivissima;
Potrei continuare con altre impressioni affini sull’amato urbi et orbi. Sì, significa proprio: amato da tutti gli orbi del Pianeta. Mi ci metto d’impegno e voglio credere che la non-povertà del Papa sia solo una continua casualità, o che qualcuno lo costringa alla ricchezza. In altro modo non si spiegherebbe l’incoerenza di certi inviti alla carità, a privarsi per donare a chi non ha, fatti da chi non incarna propriamente l’esempio del sacrificio e della privazione. Soltanto per togliersi di dosso quella ferraglia sbrilluccicante prima di andare a dormire impiegherà un paio d’ore. So che la Chiesa finanzia centinaia di missioni umanitarie, ma continuo a ritenere che, proporzionandolo al patrimonio di cui dispone, non sarà mai abbastanza. Nell’ipotesi in cui il Papa si ritrovi a fare la dichiarazione dei redditi, risulterebbe un nullatenente, perché nulla di ciò che amministra è realmente suo. Un po’ come se qualcuno vi offrisse la possibilità di vivere un’intera vita fra agi e ricchezze, con la garanzia che nessuno mai potrà togliervi oro, appartamenti, lusso, potere. Cosa contano le carte di fronte alla prospettiva di una vita da nababbo?]
Fine del pippone che di sicuro tornerà. Benedetto è insolente e non si accontenta di poche righe, lui vuole pagine e pagine da me e io lo accontenterò, ma non ora perché dobbiamo ripercorrere le tappe fondamentali del passaggio di Monti a L’Aquila. L’ultima volta che da queste parti si è visto un Presidente del Consiglio è datata novembre 2010 e non serve che vi dica chi era costui e com’è stato accolto alla sua 27esima e ultima volta nel capoluogo d’Abruzzo. Chissà perché da allora non s’è fatto più vedere. Già è un sollievo trovare una faccia nuova, non così pimpante, ma accontentiamoci. Il tour inizia dalla Casa dello Studente, ormai un grande buco fisico e nel cuore, anticipato dalle fotografie degli 8 ragazzi che hanno perso la vita. Monti le passa in rassegna con la mano, si guarda intorno disarmato da tanta distruzione ed esclama: Non me l’aspettavo così. Qualcuno nascosto fra la folla gli grida: Presidente, faccia qualcosa per L’Aquila! e lui risponde: Sono qui apposta. Giunto in piazza Duomo si lascia andare: Questa città è stupenda, posso immaginare come sia stata in passato. Vedo un entusiasmo palpabile. Quando poi s’intrufola nel bar Nurzia, per il tradizionale caffè, loda il coraggio della titolare: Complimenti per la prova di orgoglio e di forza che avete dato riaprendo l’attività qui. Siete la speranza della città! Ha parlato di un piano efficace; di una città del futuro, modello di integrazione fra patrimonio storico e innovazione; coinvolgimento della comunità nel processo decisionale. Le priorità sono la ricostruzione delle case E della periferia e il completamento dei piani di ricostruzione dei centri storici. Ottimismo e belle parole, che non sono mancate in un passato recente del quale ci ricordiamo tutti a memoria. Speriamo che stavolta siano parole diverse, nuove e pesanti, resistenti e sicure, oltre che di speranza.
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