Tornato a L’Aquila. Non ho fatto in tempo a dire che erano finite le ferie che già mi ritrovo affannato a ritrovare camicia e pantaloni della divisa, scoprire che mia madre non è riuscita nell’impossibile impresa di far sparire i pallini bianchi di varecchina che mi sono inavvertitamente spruzzato addosso l’ultima sera di lavoro – dovevo versare in una condizione seriamente devastata per tentare di autoeliminarmi, come una macchia nera di sporco – e pensare alle tre chiusure consecutive che mi aspettano a partire da oggi. Oddio, mi sono perso pure la targhetta col nome, e la mia cinta con la M arrotondata del Mc Donald’s, qualcuno l’ha vista, per caso? L’importante è che le pile siano di nuovo cariche, nonostante questo non sia per tutti noi un momento di quelli da festeggiare fino al mattino dopo, con bottiglie stappate e brindisi senza senso. Che poi, dopo l’ultima volta, è meglio che mi do una calmata prima che mi facciano un trapianto di fegato. Però c’è nell’aria sentore di cambiamento. Nell’aria c’è polline di te, insomma. Dopo questa direi: un antistaminico al più presto, grazie!
Comunque è come se il vento spingesse in quella direzione. Della novità, dell’inspirare aria nuova e neanche tanto fredda, a dire la verità. Chissà cos’è che tiene il caldo sulla città nonostante sia quasi dicembre. I lavori continuano fra disagi che non finiscono mai e di cui non ha neanche senso lamentarsi, visto l’intento che muove le azioni di tutti.
Ieri, quando è arrivata solita la domanda che si ripete da mesi: Com’è la situazione a L’Aquila? mi è passata davanti la mano devastatrice della Natura. Una mano più forte della pietra e indistruttibile come un diamante, tagliente e luccicante come la lama di un taglierino e spietata come uno schiacciasassi. Riflettevo sulla differenza. Noi che ricostruiamo da sette mesi. Cosa sono sette mesi quando c’è una città da rimettere in sesto? E la mano che passa e in trenta secondi annienta trecentotto vite e ne segna quasi settantamila. Sbriciola case neanche fossero biscotti. E ora ci vorranno generazioni per poter rivedere una città. Generazioni contro trenta secondi. Il potere del tempo che non esiste, dicono, e invece esiste eccome, come esisteva L’Aquila. Il vento positivo c’è. Fin qua sembra che io stia muovendomi verso i soliti pianti sul latte versato. No. Ci sono degli uomini e delle donne che stanno ricominciando. Ci sono case che prendono forma e negozi che riaprono, qua e non sulla costa. C’è gente di merda, tifosi del Verona che spero decida di spendere due parole per scusarsi, almeno, che sugli spalti dell’Adriatico, hanno battuto le mani e cantato in coro: “Terremotati, voi siete terremotati” a cui non voglio rispondere. Ma come si fa, dio mio! Ci sono persone silenziose e infaticabili e c’è il sindaco Cialente, che spende i suoi pomeriggi in palestra. È pur vero che noi siamo uomini, fatti di carne e non di diamante. Non sappiamo tagliare, al massimo ci lasciamo ferire. Non siamo indistruttibili, tutt’altro, basta poco per affossare l’umore e sentirci tristi, malinconici, sconfitti. Non ci permettiamo di sfidare Madre Natura a duello, quello no, però stiamo ricostruendo L’Aquila, signori miei, e scusate se è la nostra città.
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