Domani sarò in viaggio per Firenze con la macchina carica fino all’inverosimile. Mi trasferisco. Domani… mioddio! Ora che l’ho scritto sembra più vero. Forse per questo ho sentito il cuore fermarsi e un vuoto improvviso simile a quelli in aereo. Mi sa che non se l’aspettava nemmeno il mio stesso organismo. Da me che sono sempre il solito: parlo, parlo, dico che farò, che andrò, che lascerò, ma alla fine resto sempre fermo dove sto, a lamentarmi. Stavolta ho preso una decisione e l’ho fatto in frettissima e con una facilità spiazzante. Almeno è quanto potrebbe pensare chi non mi conosce bene. La verità è che era tutto stabilito da anni.
Dopo la laurea verrò a Firenze a cercare fortuna.
Quante volte l’avrò detto ai miei amici. Poi ha fatto il terremoto, poi sono passati cinque anni, ma il mio piano è sempre rimasto lo stesso. Avrei dovuto concludere gli step precedenti molto prima. Questa è la mia principale colpa, alleggerita dalla consapevolezza di essere stato bravo, quest’anno, a chiudere il cerchio. Perché non è mica detto che uno le tappe le supera sempre. Puoi anche restarci bloccato una vita, come al livello finale di un videogame che a un certo punto lasci perdere, e io non ho lasciato perdere.
Appena mi sono laureato è scattato l’interruttore per il passo successivo. Mi sono tappato le orecchie, pure quelle della mente, per non sentire nemmeno un pensiero. Ho costruito una barriera filtrante tra le mie decisioni prese e il mondo esterno. I dubbi degli altri, i consigli di fermarmi a riflettere, le paure per me, sono andati a sbattere tutti contro la barriera, e si sono sgretolati perdendo la loro energia. Mi sono licenziato per laurearmi. Mi sono laureato per andarmene e cercare lavoro fuori. Non potevo davvero interrompere questa catena di scelte coraggiose proprio quest’anno, il primo della mia vita in cui ha veramente funzionato tutto. Probabilmente non sarò così bravo e fortunato anche stavolta, e ci ritroveremo qui, fra un anno, a parlare di un’altra storia, di un’altra città, di nuovi obiettivi, ma una cosa è certa: non potevo davvero non provarci. Sarebbe rimasto il mio peggior rimpianto.
A fine agosto ho passato una settimana a Firenze per cercare casa, ospite dei miei amici carissimi che si fanno sempre in quattro e, se serve, in otto per me. Non torno a L’Aquila finché non la trovo, mi dicevo in treno durante l’andata. Solo che le cose sono sempre molto diverse da come te le immagini. La mente tende a semplificare, e io pensavo di vederne quattro o cinque e scegliere fra quelle la meno peggio. Contavo di sbrigare la faccenda in tre giorni e offrire da bere a tutti. Insomma, stavo facendo il passo del secolo, che importava della casa? E invece no, perché in quella casa ci devi stare, con quegli sconosciuti ci devi vivere, e poi non avevo considerato il fattore selezioni. A Firenze, ma mi dicono un po’ ovunque, non sei quasi mai tu a scegliere la casa, ma è la casa che sceglie te. Se non le vai bene, puoi desiderarla quanto vuoi, quella casa lì non l’avrai. Sono stato rifiutato da tanti begli appartamenti. Non ho superato la selezione dei ragazzi che li abitavano, e che si trovavano a scegliere fra decine e decine di candidati per un unico posto letto. Fra i pretendenti c’era sempre qualcun altro più carino, più sorridente, vestito meglio, più giovane e con più capelli di me. Non che ci volesse molto, ecco. Poi, se gli dici che scrivi, si fanno subito l’idea del fallito disgraziato che vive di stenti e magari gli fa lo scherzetto di non pagare l’affitto.
Una ventina di stanze le ho lasciate stare solo in virtù di sensazioni non legate a niente. Avete presente quando vi trovate in un luogo e vi sentite tremendamente a disagio? Altre per la zona troppo distante da tutto, o per una coinquilina che ha indugiato su di me con lo sguardo schifato e in pena che si riserva a un cucciolo di tarantola che sta morendo agonizzante, o perché l’appartamento si trovava al ventesimo piano sotto terra e per raggiungere la superficie e vedere la luce bisognava prendere l’ascensore. Un’altra aveva un asilo adiacente, e le rassicurazioni del padrone non mi sono bastate: – Dopo le 18 la situazione si calma.
Non è che uno, per non impazzire, può ibernarsi e scongelarsi dopo le 18, voglio dire. Ma vi voglio narrare l’esperienza più ai confini della realtà di questa ricerca disperata. Già l’annuncio non era per niente foriero di buone sensazioni, in particolare la riga: in casa abitano svariati ragazzi e ragazze + due cani. Non mi preoccupavano tanto i cani – io ce ne ho tre, figuriamoci! – quanto quel svariati, come se fosse un numero indefinito e neanche piccolo. Come se comportasse troppa fatica, per chi ha scritto l’annuncio, farsi un conteggio di quanti fossero realmente gli inquilini. Comunque, visto che il prezzo della singola era molto basso – io, immerso nel mio pietoso pozzo di ingenuità, ho creduto fosse per i due cani – decido di andarla a vedere. Ero con Linda, una dolce fanciulla carina, curata, educata e delicata. Ci troviamo di fronte uno spettacolo macabro e stupefacente, inteso nel suo significato più hippie: una specie di casa degli orrori, un mix fra Amore tossico di Caligari, Trainspotting e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. A farci da guida in quel labirinto di stanze cupe c’era un giovane che già dal mattino dimostrava visibilissimi segnali di annebbiamento. Ma lui il mattino in quella semioscurità mi sa che non lo vede mai. Mi mostra la stanza e mi dice: – Non fare caso al disordine, poi aggiusto tutto.
Il disordine in questione sembra il risultato di un’eplosione seguita da un abbandono durato mesi. Ma come fa a vivere in quella stanza? Travi spezzate a terra, sporco di ogni entità e genere, accumuli di materiali difficili da identificare.
Ma quello che mi turba sono tre teste di bambola appese all’armadio, e questo sarà un tema ricorrente della visita. Teste di bambola appese dappertutto: in cucina, sul balcone e lungo il corridoio che era la versione deteriorata di quello di Shining.
Lui apre una porta e dice: – Lì ci sono due coinquilini – indicando un letto su cui si vedono due corpi seminudi stretti nella penomba. Avanzo subito superando la stanza. Me ne voglio andare da qui. Dov’è la porta? Linda sta dietro di me che procede muta e col terrore nello sguardo.
– Sei viva? – le domando sottovoce. Potrei anche urlare tanto il tipo non mi sente, perché non abita la nostra stessa realtà. Lei mi rassicura con un cenno della testa.
– Quello è il bagno! – fa lui.
Una scritta rosso carminio su una porta avverte: HORROR BATHROOM. Ora ci chiudono là dentro e ci tagliuzzano con una lametta, penso. Mi volto da un’altra parte a caso e incontro altre teste di bambola impiccate. Tagliamo corto, salutiamo, scappiamo.
Dopo una settimana di ricerche inconcludenti, più di trenta case viste, non so quanti chilometri a piedi fatti – Maps, grazie di esistere! – non avevo trovato una, che fosse una casa accettabile, giusta. Sono arrivati i momenti di sconforto. E proprio nel giorno peggiore, o almeno così sembrava – le persone non rispondevano agli annunci, non ne trovavo di nuovi, e poi ci sono quei giorni in cui esplode tutto il malumore insieme, e si è messo pure a piovere forte – ho trovato la mia stanzina. E’ piccola, ma non troppo, in un appartamento di tre singole, con altri due ragazzi lavoratori – dico altri come se anch’io lavorassi – in zona Campo di Marte, centro raggiungibile a piedi, costo inferiore al buco del demonio pocanzi descritto. Ho sentito una grandissima felicità esplodermi dentro, come se per tutta quella settimana fosse rimasta chiusa in una membrana in attesa di nascere.
Domani andrò a svuotare la mia vita in un’altra casa. Sono terrorizzato (e felice). Ci aggiorniamo da Firenze, questo è certo. Allora vado. Ok, sì… vado eh!
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