A un paio di palazzi dal mio, vive una donna sottile come il tubo di un termosifone e con sulla testa filamenti rossastri al posto dei capelli. Nella vita ha combinato un sacco di guai, che la vita gliel’hanno rovinata. Si potrebbe dire che se l’è rovinata da sola, ma non sarebbe del tutto vero. Per rovinata intendo condizionata senza rimedio, come una malattia cronica. Il suo passato sbagliato pesa sul presente e sul futuro; tutto quello che può fare è tentare di vivere con dignità i giorni faticosi ai quali i suoi errori l’hanno destinata. I grandi educatori la prendevano a esempio quando si trattava di spiegare ai pargoli cosa non fare, la minaccia da cui scappare ché, se non ti fossi comportato in un certo buon modo, saresti diventato come lei. Io non sono diventato come lei, né come nessuno. È questione di personalità o mancanza di personalità, mixate in una bomba di esperienze, non-amicizie, serate che diventano nottate, che finiscono all’alba e finiscono male.
Non è cattiva. Da bimbo ero convinto del contrario. Da bimbo associavo l’azione sbagliata all’animo malvagio che l’aveva compiuta. Così mi è stato insegnato. D’altronde, chi potrebbe fare del male, se non una persona senza scrupoli? Crescendo mi sono accorto che esistono strati e strati di motivi da esplorare, prima di condannare qualcuno a una vita di lavori forzati per un errore inconcepibile (per te che non sei come lei). Che quello sforzo di comprensione va fatto, non possiamo sempre cavarcela stabilendo una distanza di sicurezza dal male. Bisogna entrarci dentro, superare i propri limiti nel tentativo, seppur vano, di capirci qualcosa.
Si può sbagliare senza volerlo, facciamocene una ragione. Si può sbagliare senza caricare le proprie azioni della volontà reale di ferire. Possiamo combinare grandi guai senza averlo prima pianificato. Ahimè sì. Per caso, per cattiva sorte, per un’ingenuità. Talvolta i nostri sbagli sono solo il frutto di una forza non pervenuta al momento decisivo: la forza di scuotere la testa, fare spallucce e camminare a testa alta nella direzione contraria. Questa è l’unica colpa che le riconosco, seppur mi risulti difficile considerare colpa una mancanza di forza. Non ha saputo reagire agli eventi che l’hanno messa alla prova. Ha toppato tutte le sfide. Non ha saputo tirar fuori, in gioventù, quella stessa energia che a 50 anni la distingue da chi pare già mezzo morto. Non sto dicendo che i suoi errori siano serviti a qualcosa, però è vero che è diversa dagli altri. Quando l’ascolto affrontare una questione penso sempre che lo fa nel modo migliore, con le parole giuste, le scelte più opportune e mi domando ogni volta se è davvero la stessa persona protagonista di tutti quei brutti giorni. Non voglio ripetere che scendere all’inferno fa crescere, perché non ci credo, perché dietro le fiamme da lei accese e alimentate in molti non riusciranno a perdonarla per averli fatti diventare come lei. Ieri mi ha fermato per strada.
“Matte’, ti posso parlare un attimo?”
“Certo!”
“Tu che sei uno scrittore devi fare una cosa per me.”
“Che cosa?”
“Devi farmi scrivere una frase sulla lapide.”
“Ti prego! ‘Ste cose portano una sfiga immensa e va a finire che muoio prima io di te.”
“Te la devi segnare. Adesso!”
“Ah, ce l’hai già pronta? E allora a che servo io?”
“Servi perché i miei parenti di sicuro si rifiuteranno, ma tu devi insistere!”
“Sentiamo!”
“Dal marmo bianco della mia lapide deve emergere a caratteri grandi, dorati e in stampatello soltanto la seguente scritta: VE L’AVEVO DETTO CHE MI SENTIVO POCO BENE.”
Ho cominciato a ridere, ma ridere tanto. Mi mancava il fiato dal ridere e rideva pure lei. Piegati coi lacrimoni.
“Almeno, quando la gente passerà davanti alla mia tomba, si farà una bella risata.”
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