Non mi ero accorto di essere rimasto per minuti immobile, con gli occhi che per direzione avresti detto puntati sull’olio bollente di friggitrici da sgrassare, ma che in verità guardavano tutto e niente, oltre la materia davanti, e si domandavano se l’immagine di quel volto riflesso sull’acciaio fosse l’ora e qui, oppure una proiezione di me con disegnata l’usura di vent’anni in più. La mano di un collega mi ha condotto indietro. Ho detto: Ero sovrappensiero, con in tasca un imperativo senza più punti interrogativi. Cambiare. Me lo ripeto da anni. Bene, è arrivato il momento di farlo. E il momento è l’autunno che verrà. L’estate mi ha restituito gli stimoli che la stanchezza fisica di un intero anno aveva esaurito piuttosto in fretta, bicchiere dopo bicchiere, come una bottiglia di acqua naturale fresca al pranzo di Ferragosto. Quando tornano le forze, i sorrisi, l’imprevisto, torna anche la voglia di progettare, inutile in una quotidianità già decisa. Ho attraversato settimane di recupero. Niente a che vedere con i minuti finali di una partita di coppa, alla disperata ricerca di una vittoria ritenuta meritata. Si tratta di un percorso benessere senza stabilimenti termali o Spa. E’ il risultato di una riflessione arrivata a due passi dal precipizio quando, ad alta voce, mi sono domandato: Ma come mi sto riducendo?
Vi è capitato mai di guardarvi allo specchio, o nel riflesso di una porta a vetri, e trovarvi da buttare? Non fatelo, ché trasformati in concime per il prato inglese non vi sentirete di certo più soddisfatti. Ma inventatevi qualcosa per uscirne, per generare l’unico processo inarrestabile: il cambiamento. Aprite la finestra e fate entrare tutto il caldo di quest’ultimo infernale anticiclone. Permettete al sole di farsi sentire sui vostri corpi, ricordarvi cos’è calore, cos’è sudore, cos’è occhi chiusi a ricaricare le pile. E’ un po’ vero che gli esseri umani vanno a energia solare. Siamo più complicati di un’automobile alla quale basta benzina e tagliandi per andare avanti a oltranza. A noi non bastano 6 o 7 ore di sonno a notte, per svegliarci e metterci a costruire. Abbiamo bisogno di energie vitali che ci facciano sentire bene, che ci convincano di valere, che ci facciano piacere per quello che siamo. Arrivano un po’ dal sole, un po’ dagli altri e tanto dai nostri sogni che ci mantengono a galla.
Io ero stanco come un intero stanco, e stanco come un collage di parti, ognuna stanca a suo modo e più delle altre. Alla sera non riuscivo a tenere gli occhi aperti per pensare. Questo mi faceva arrabbiare perché, per me, un angolo di solitudine riflessiva giornaliera è più importante dei cereali a colazione. La rabbia tentava di salire in superficie, ma crollava poco dopo. Mi era chiaro che non stessi procedendo nella direzione giusta, però continuavo nell’attesa di un’illuminazione che una routine così logorante non mi avrebbe offerto mai.
Continui a fare, fare, fare. Non riesci a leggere. Ti stai impoverendo, costretto a relazionarti con individui che non frequenteresti, se non fossi costretto dal lavoro che fai, a batterti per argomenti e conquiste di nessun interesse. Ti stai imbruttendo, ingrassando, invecchiando. Eppure persisti, perfettamente integrato nella catena di montaggio della vita, per la bella vita di qualcun altro. Sembra che questa condizione sia a tal punto di tuo gradimento da toglierti dalla testa l’eventualità di cambiarla per una migliore, non solo per convenienza, quanto e soprattutto per la qualità. C’è la vita, e quindi tu, Matteo, prima del lavoro, dei doveri, delle responsabilità, del denaro che ti ammazzi per avere e ti basta appena per la metà del mese, devi vivere.
Per tutto questo, e molto altro, io vivrò.
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